mercoledì 1 dicembre 2010

Le quattro volte. La Terra si spiega

(Pubblicato sul numero 203 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pag. 20-23)

Michelangelo Frammartino ripete che Le quattro volte non è il risultato di una sua ossessione: i soggetti filmati si sono svelati naturalmente davanti all’obiettivo e non sono stati materia da modellare secondo un’idea prestabilita. Il documentario, presentato in occasione del Festival di Cannes 2010 nella selezione Quinzaine des Réalisateurs e vincitore del Premio Europa Cinema Label, nasce dalla paziente osservazione di alcuni territori calabresi, dei paesi Serra San Bruno, Caulonia e Alessandria del Carretto; è il frutto donato da queste terre, un loro ringraziamento alla troupe per l’attenzione e il tempo speso a scoprirle. Se la natura del cinema è da sempre quella di un mezzo che sistema immagini mobili e, in quanto queste mutano non appena vengono colte, pensabili con ritardo necessario, i modi del linguaggio contemporaneo investono gli spettatori con scatti frenetici che annebbiano il pensiero, calcando determinate peculiarità tecniche, quasi portando ad un’inafferrabilità anche sul piano dei contenuti, diventando così una forma di distrazione che mira ad assicurare unicamente una certa dose di partecipazione emotiva, garanzia contro l’abbassamento del livello d’interesse.

Se da un lato c’è la natura del cinema e dall’altro vige la sedimentata tendenza odierna, Le quattro volte si allontana dai codici attuali e, pur non potendo eludere le caratteristiche intrinseche del mezzo, tenta di rallentare, di favorire la contemplazione, rinunciando coraggiosamente a colpi di scena, trame appassionanti ed altri espedienti.

Ogni inquadratura mi ha dato la sensazione di essere la seconda di una coppia, di cui la prima era stata scartata in fase di montaggio: come se durante le riprese ci fosse stato prima uno sguardo veloce e superficiale, e poi, dopo aver chiuso gli occhi, un secondo sguardo diretto a focalizzare meglio lo stesso soggetto, lasciando che quest’ultimo imprimesse più accuratamente la propria immagine sulla pellicola e che ogni fotogramma si dilatasse nel tempo e si distendesse completamente, traboccando fuori da quei ritmi televisivi che imbrigliano in a priori nevrotici qualsiasi percezione. Inquadrature che testimoniano una riflessione, anche del regista, aperta sia sulla porzione di mondo racchiusa che sugli spettatori, resi partecipi da questo sguardo insolito.

Il materiale archiviato durante il periodo di riprese si è fatto montare sviluppando una narrazione cadenzata in quattro parti, ognuna avente un protagonista. La storia, che nel complesso dell’opera riveste un ruolo secondario, inizia con la descrizione della metodica vita di un anziano capraio, prosegue con la nascita di un capretta e col suo smarrimento ai piedi di un grande abete bianco, vede quindi l’abbattimento di quest’ultimo e la sua sistemazione in paese per celebrare una festa tradizionale e, infine, tramonta documentando i pezzi d’abete bruciati in modo da ottenere carbone di legna, poi distribuito anche all’abitazione del pastore. La trama unisce in un unico discorso l’uomo, l’animale, il vegetale e, per rimando simbolico, il minerale: il pastore, la capretta, l’abete bianco ed il carbone (di legna). Questo è l’aggancio del film con la frase di Pitagora secondo la quale l’uomo ha una percentuale minerale nelle ossa, una parte vegetale dovuta alla funzione nutritiva, una componente animale connessa alle capacità motorie ed un aspetto razionale in quanto portatore di ragione. Frammartino applica questa quadripartizione dell’uomo al mondo che filma, al paesaggio calabrese; ma allo stesso tempo gioca a rendere meno rigide le staccionate che delimitano questi generi. O meglio, l’oggetto delle riprese, lasciandosi filmare, si denuda, lamentando la limitatezza della quadripartizione. Già a livello narrativo queste barriere vengono fatte tremare dalla figura del pastore, storicamente collocato sul confine tra l’uomo e l’animale; e non è un caso che la sua casa sia all’ingresso del paese, metà dentro e metà fuori. Alcune immagini proseguono il terremoto concettuale: gli abitanti locali si allontanano in processione dal paese e le capre escono dal loro recinto per avviarsi, sempre in forma di processione, all’interno del villaggio. La visiva messa in discussione dei regni può essere colta anche in una delle scene finali, nella quale viene mostrata una carbonaia che, ardendo legna per trasformarla in carbone, sbuffa fumo e si anima, somigliando ad un gigantesco naso di cane o ad un enorme testuggine trasudante. Anche l’innalzamento del grande abete bianco in occasione della festa folcloristica contribuisce alla scossa: raramente una pianta viene assoggettata di tali attenzioni, direi, antropocentriche.

La colonna sonora del film presenta esclusivamente i rumori dei luoghi e le poche voci umane arrivano da lontano, incomprensibili, in dialetto, recepibili come versi animali. I suoni vanno a formare una mappa dell’udibile che si sovrappone, coprendole, alle quattro etichette. Le diverse fonti diventano semplici strumenti musicali di un solo musicista, la Terra; e la loro continuità è ascoltabile udendo la vicinanza timbrica del respiro rantolante del pastore con quella delle sue capre, del tintinnio di un cucchiaino mosso in una tazzina con quella dei campanacci legati al collo degli animali.

Da un lato la linea cronologica ed il titolo suggeriscono al viaggio del pastore che vive, e s’incarna, quattro volte: questa è la storia, ciò che si può raccontare. Dall’altro le analogie visive e sonore aumentando il volume del raccontabile che, mutando in pura visione, consente solamente di essere contemplato, alimentando la concezione di un unico mondo della vita, le cui pieghe vengono catalogate dall’uomo in quattro nomi. Forse, i soggetti dei quattro capitoli svolgono il compito di introdurci nella pellicola, di apprezzare il corpo della Terra che, finalmente, si lascia ammirare dispiegandosi nella sua totalità. Forse ciò che distinguevamo erano i nodi del terreno che, lasciandosi tirare come una tovaglia, scompaiono mettendo in mostra il suolo comune. Così la Terra si spiega.

martedì 16 novembre 2010

Simposio in ricordo di Oscar Signorini

(Articolo pubblicato sul numero de "Il Corriere dell'arte" uscito il 5 novembre)

Il 21 ottobre, nella sede milanese della Società Umanitaria, si è tenuto un simposio per ricordare Oscar Signorini a cent’anni dalla nascita.

Ideatore nel 1959 di D’Ars Agency (oggi Fondazione D’Ars Oscar Signorini onlus) nata offrendo agli artisti un servizio di pubbliche relazioni, arricchita dal bollettino che nel giro di pochi anni è diventato la adesso-cinquantenne rivista di cultura e comunicazione visiva D’ARS, Signorini è stato definito da Amos Nannini “un seme uscito dall’Umanitaria che, posandosi, ha fatto qualcosa di ancora più grande”.

Persone che lo avevano conosciuto hanno condiviso, con l’uditorio, un aneddoto o un pensiero e, dalla commozione controllata nei loro visi, è trasparso il grande senso di umanità di Oscar Signorini.

Come raccontato da Grazia Chiesa, l’esperienza negativa con un gallerista lo spinse ad aiutare e indirizzare gli artisti con spirito di comprensione.

L’apertura all’altro, al prossimo, è stata testimoniata anche dal politologo Arturo Colombo che ha indicato nell’equazione “capire-far conoscere” il credo di Signorini, come se per comprendere un’idea, o un’opera d’arte, fosse necessario vederla reagire nella comunità, collocarla tra le persone.

Tutti i presenti a questo simposio avranno cenato con ben focalizzata l’immagine di Signorini nel suo immancabile cappotto, una presenza che riempiva più di qualsiasi parola.

martedì 21 settembre 2010

Trame di mondo


(Pubblicato su http://www.luigidegennaro.it/ )

Come una casa, che allo stesso tempo è presenza e chiusura, la posizione stilistica ed espressiva di Luigi De Gennaro, pur evitando l’alienazione sociale, segue solo se stessa. La sua casa è un libro di quadri da contemplare una volta varcato l’ingresso, da sfogliare percorrendo corridoi e stanze; libro che è l’artista stesso in quanto pensiero e inquilino della propria estensione artistica. Affermare l’unità dell’artista con la propria abitazione permette di capirne la posizione: uno sguardo critico che si esprime evitando le mode e mantenendo sempre una contraddistinta, ma non inflessibile, matrice surrealista.

Dipinti che sono la cristallizzazione di un occhio che vive e, allo stesso tempo, ferma la vita analizzandone alcune dinamiche con la lucidità di un flash fotografico, riproducendole con colori e linee chirurgiche che ne rilevano, selezionano ed elevano ogni elemento. De Gennaro scoperchia, smonta e rielabora il flusso psichico e sociale, fissandone ed interrogandone certe zone, portandone in luce alcuni meccanismi e riuscendo a dare organicità a tutti gli ambiti toccati, ritratti nella loro compenetrazione viscerale.

Scacco matto alla Signora, nel 1988, “riabilitava” colori e atmosfere tra il medievale e l’apocalittico, sollevando le tende della vita fino a scorgerne i conflitti, collettivi e psicologici, figurati nel loro stato battagliero, mediante le carni e l’armatura di un soldato che calca il destino “giocandosi a scacchi” l’esistenza, affrontando se stesso e distruggendo l’ostacolo, la Signora. Anche ne I dubbi di Colombo è presente la rappresentazione concreta di ciò che è interno, velato: un uomo, che di fisionomicamente umano mostra solamente la sagoma del lucido abito nero, ha mani e volto smaterializzati, sostituiti con pensieri sgorganti dal collo e dai polsi, sotto forma di mappe e carte geografiche; esplosione di responsabilità che ha annientato i lineamenti dell’umanità.

In De Gennaro il Surrealismo non è mai svanito e nel 2006, con Il magico riflesso, l’artista omaggia Salvador Dalì dipingendolo, appunto, come riflesso, come se lo sentisse fremere nei propri pennelli.


Negli ultimi anni la sua ricerca artistica ha evoluto il proprio taglio, ottenendo un effetto sempre più intuitivo, attraverso l’innesto di raffigurazioni bidimensionali e di frammenti di specchi, soluzioni che escono dai canoni della sua classica pennellata descrivente. Se in precedenza la sua opera aveva narrato le visioni e le trame del mondo attraverso una riproduzione realistica, ora l’artista sembra incamminarsi verso un’esclusività dei soggetti, delimitando ancora meglio i propri intenti, che risalgono quasi in modo semiotico, provando a ridurre gli elementi marginali ed accentuando la messa a fuoco, senza mai cadere nel solipsismo dei protagonisti.


Per anni molte delle sue produzioni avevano proposto un interessante simbolismo che alternava richiami storico-mitologici, psichico-onirici o legati al bagaglio collettivo dell’umanità; con alcune opere più recenti, mediante la bidimensionalità e gli specchi, De Gennaro ha semplificato la significazione, centrando più direttamente il supposto messaggio. Opere quali Il gioco delle 3 carte, Riflessi biondi e L’intruso palesano un collage pittorico di sagome colorate; questa parziale rinuncia alla realisticità e alla tridimensionalità illusoria dell’immagine favorisce l’immediatezza espressiva, agevola la comprensione del tema ed avvicina l’intenzione dell’autore alla ricezione dello spettatore. Intreccio autore-opera-spettatore che emerge ancor più concretamente con le tele appartenenti alla fase dei “riflessi mobili”, il cui senso può essere spiegato, su più livelli, prendendo in esame Grizzly. Due orsi in atteggiamento aggressivo e le enormi tracce delle loro stesse unghiate: apparentemente i graffi sembrerebbero causati dalle loro zampe; ferocia animale riversata all’esterno, spettatore compreso. Le figure delle unghiate, però, sono campite attraverso specchi che riflettono frammenti dell’immagine dell’osservatore: il senso dell’opera cambia dal momento in cui lo spettatore, contornato nella superficie riflettente, diventa la ferita incisa sugli orsi; l’aggressività animale è mutata ora in urla di dolore.


Le inserizioni di specchi sviluppano continui ribaltamenti di senso, visibili anche in Trompe l'oeil, in cui la follia dei tre matti viene attenuata da una finestra in secondo piano, riempita con un frammento di vetro, che va a ribaltare la visione, dove il matto, il diverso, è lo spettatore.

I riflessi mobili muovono i quadri e le loro immagini, fondendo il fruitore all’opera e andando a creare continui cambiamenti di significato, ospitando svariati interrogativi senza mai spegnerli in risposte definitive, e lasciandoli vivi sulla tela e nella mente.


L’efficacia della bidimensionalità è perfettamente osservabile ne Il gioco delle 3 carte: azione e movimento vengono accantonati in direzione di una comunicazione sempre più esplicita, che non lascia dubbi riguardo al legame “relazioni amorose-gioco”. Ricordi di amori mai idealizzati, forse clandestini e appartenenti alla storia filogenetica dell’uomo, possono essere suggeriti da Riminiscenze, opera ironicamente intitolata trasportando Rimini, luogo di passioni e divertimenti trasgressivi, nel vissuto della collettività.


Episodi, tratti dalla realtà o dalla fantasia, raccontati per mettere in luce sensi ed aree nascoste; ma anche polarizzazioni della vita ed astrazioni dalla sua velocità d’azione e movimento. Eventi e incroci sotterranei, le cui cime appuntite vengono solitamente additate come sconvenienti ogni volta che spuntano in superficie, dipinti per essere universalizzati; e ritratti di visioni che macchiano e relativizzano tutto ciò che viene considerato buona regola, bel pensiero, costume e comportamento adeguato. Questo è Luigi De Gennaro.

sabato 4 settembre 2010

INVICTUS. Giocare a coesistere

(Pubblicato sul numero 202 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pag.44-46)

Invictus non è un film che documenta la storia della Repubblica Sudafricana: ne è un romanzato e poco esauriente frammento. La vicenda non risulta confezionata solo se recepita in senso simbolico; lo sfondo è quello di un paese uscito dall’apartheid, sgretolato in parti che possono essere raggruppate secondo le categorie – sedimentate nel luogo – di bianchi e neri. Dopo le prime elezioni democratiche con suffragio esteso a tutte le etnie, le sorti della Repubblica vengono deposte nelle mani di Nelson Mandela, primo presidente nero; a lui il compito di unificare un paese disgregato dalle politiche razziali. La gamma cromatica di Invictus segue il processo di formazione di una forma instabile:i colori sembrano diluiti nella sabbia, opacizzati in un’atmosfera diveniente. Sabbia di spiaggia, ghiaia, o terra d’altura. Come se non si riuscisse a mettere a fuoco il tipo di paesaggio: mare, città o montagna? Il paese è un corpo addormentato che attende di essere svegliato, ancora non si sa se avrà lo stesso vecchio volto o se sarà un fanciullo tutto da scoprire. L’opera precedente del regista, Gran Torino, trattava le difficili relazioni tra uomini che si sentono reciprocamente estranei; qui si tenta di affrontare la questione dal punto di vista del rispetto delle diversità, aprendo una finestra sull’orizzonte della coesistenza viva. Le parti in conflitto sono sottostanti a principi in lotta ed escono da una situazione d’ordine gerarchico a favore del gruppo dominante dei bianchi afrikaner. Il passato è stato l’innalzamento di un differente come modello a sfavore degli altri. Stabilizzare il Sudafrica attraverso i principi di un altro gruppo, quello che era stato dominato, vorrebbe dire proseguire con la politica dell’intolleranza; rispettare una parte e omologare violentemente i discordanti, come era accaduto negli anni dell’apartheid. Gli svariati momenti di meditazione, che intervallano l’azione della pellicola, mi hanno subito suggerito la volontà di evitare una nuova coesistenza conflittuale, di continui ribaltamenti di potere aventi per protagonisti gli schieramenti antagonisti. Clint Eastwood, raccontando Mandela, mette in scena la presa di coscienza di come il principio sia un sistema di valori nato sul terreno del differente dominante. I princìpi, sfere spirituali e centri di riferimento, non contengono la giustificazione della loro applicabilità, sono giustificati dalla forza con la quale vengono imposti: le espressioni dei visi hanno fatto esplodere le rigide maschere. All’Ellis Park Stadium di Johannesburg, dove si gioca la coppa del mondo di rugby, gli occhi delle numerose guardie del corpo del Presidente, fissando costantemente la folla sugli spalti, sono attenti a prevenire eventuali attentati al loro leader; sguardi sfiniti rivolti al cielo, in attesa di un’idea accordante. Lui, un Morgan Freeman talmente nel ruolo da far quasi dimenticare il reale viso di Nelson Mandela, ha nella pelle scritta di rughe la traccia di un nuovo pensiero. Il valore nel quale poter dare alloggio alle differenze è sempre una categoria che non può rispettarle tutte. Il caso del Sudafrica è estremo e mette in luce il problema. Dopo ventisette anni di prigione Mandela sa che innalzare un differente come casa di tutti gli altri non è un ospitare, bensì un imprigionare la vita. Allo stesso tempo è necessaria una via che eviti l’inevitabile conflitto tra parti distanti, impegnate a conservarsi ed affermarsi; una via che tuteli le vite senza limitarle. La via del Mandela di Clint Eastwood è uno sport, il rugby: ciò mi ha fatto pensare anche ad una battaglia simulata, che non va a toccare l’esistenza delle persone. Il principio non è più radicato in un differente ma diventa qualcosa che sta in superficie. Come una mano che indossa una calza a mo’ di guanto, non consentendo all’occhio di notare gli spazi tra le dita; così le differenze etniche e culturali, senza subire violenza, vengono coperte dalla maglia della Nazionale di rugby. Questo caos eterogeneo è la vita con tutta la sua diversificazione: rimarcare le tante rappresentanze e forzare la loro accettazione porta al conflitto. La squadra degli Springboks, simbolo della politica di segregazione razziale, non viene smantellata ma diventa principio unificatore di una nazione divisa: Mandela la erge a modello nazionale levandone i contenuti storici, politici e culturali. È un modello superficiale. La squadra di rugby non è più il segno del dominio dei bianchi afrikaner; e non viene nemmeno schiacciata dal dominio delle etnie africane. Gli Springboks sono il gioco, la leggerezza che deve passare sopra alle differenze, lasciandole vivere e non evidenziandone gli attriti; sono gli atleti che vanno in mezzo alla gente, allenandosi con bambini cresciuti nella polvere. L’identità non può nascere laddove si continui a fare luce sulla separazione delle parti. I punti di contatto tra i dissimili creano le basi per una parvenza di identità, una maglietta da rugby che copre le divergenze. Il modello imposto da un differente era apparentemente universale e non rispettava le dissomiglianze; questo principio le rispetta e non pretende universalità. Il Mandela di Clint Eastwood si concentra sull’incontro di flussi pacifici, da lì nasce la coesistenza viva, non dalla dittatura del più forte. Giocando tra dissonanti si sono fatti salire i punti da unire per avere un volto giovane. Non è l’ultima meta ma deve essere sempre un calcio d’inizio; infatti la situazione del Sudafrica è ancora oggi problematica. L’identità va continuamente modellata seguendo i movimenti delle dita che la calzano. Il verde della divisa degli Springboks è simbolo di differenti le cui taglie vanno sempre verificate. Guardare il fattuale ricordando un verso della poesia “Invictus” di William Ernest Henley: “ I am the master of my fate”.

giovedì 29 aprile 2010

Bon anniversaire Ercole


Allo Studio D’Ars di Milano, dal 28 aprile al 24 maggio, è possibile godere di alcune opere di Ercole Pignatelli, definito da Antonio Massari come “il primo pittore italiano”. Pierre Restany scrisse: “vive nel ritmo e nel tempo della leggenda” e ancora “questo canto sarà forse uno degli ultimi rifugi dell’umanità (…) che viene totalmente sfregiata dai fatti di oggi”.


Il suo universo artistico è un passo indietro: le cose tornano ai colori del paesaggio che le ha generate. Le sue donne, che portano al limite la fisionomia umana senza cadere mai nella bruttezza, sembrano pere, mele, alberi, rocce levigate dal mare: carni che riempiono la pelle fino a raggiungere non il limite dell’esplosione; bensì arrivando al punto d’inizio, a quando si era forme in attesa di germogliare. Forme tonde, in armonia fra di loro, matrici di qualcosa che può ricominciare diversamente; ed è nella vicinanza esteriore tra le superfici dei tondeggianti corpi umani con quelle dei tronchi sferici di un bosco che si rintraccia una somiglianza interiore: la vita.


Il ritratto di un mondo che è ancora mondo, o che è un prima-del-mondo così come lo intendiamo oggi, quando le categorie della coscienza, e della conoscenza, non lo avevano determinato ad essere cose, strumenti, persone.


Riavvolgendo il nastro, si va a sbrindellare l’artificiale vedendo dei ferri arrugginiti prendere le sembianze di un rapace.


L’arte di Pignatelli suggerisce un’altra possibilità, tornando al momento della creazione, ponderando diversamente le direzioni da prendere. Risultati pittorici e scultorei, creazioni dell’artista, rappresentanti il momento in cui la creatività doveva ancora iniziare a costruire. Sogni nei quali rifugiarci e da portare dentro di noi, quotidianamente.

(L'articolo verrà pubblicato sul settimanale "Il corriere dell'arte" in uscita il 14 maggio)

giovedì 18 marzo 2010

L'importanza delle piccole cose

Qualcuno ha scritto che la funzione dell’arte sia quella di ritrarre e, quindi, di dare un senso alla vita di una civiltà: lascia delle immagine nella storia, dona un’identità al popolo.


Coi packaging di alcuni prodotti che umilmente allietano le nostre giornate, Giordano Redaelli identifica la nostra cultura. Siamo la società del marketing, della smania di vendere ed acquistare. Siamo la civiltà della seducente superficie che supera il contenuto, dei prodotti e non degli oggetti. Se è questo che siamo, allora dobbiamo esserlo in grande stile.


Così, da un collage di etichette di bottigliette d’acqua aventi la luna come logo, emerge un astronauta con in pugno la bandiera americana: esplode il valore simbolico del marchio pubblicitario. Sopra ad una tavola ricoperta di carte di caramelle, ordinate in modo da formare una texture, l’artista ha dipinto una caramella la cui forza dei colori ne fa la protagonista vivente dell’opera. Vedere qualcosa di grande nel ritmo consumistico di una società.


Da un lato si assiste al ritratto della nostra epoca; dall’altro si nota come Giordano Redaelli abbia voluto tributare di senso quelle cose, piccole, che contribuiscono alla buona atmosfera dei momenti quotidiani. La bandiera americana e la Statua della Libertà che balzano fuori da innumerevoli francobolli metodicamente disposti. Una moca dipinta a smalto bianco sopra ad una texture di stirate confezioni di caffè.


Le opere di Redaelli paiono ambigue per il modo col quale lodano e biasimano, racchiudono un contrasto: sono lo sforzo di trovare bellezza nella pochezza della quotidianità; ma sono anche l’esaltazione delle piccole cose che addobbano i nostri momenti quotidiani, la sottolineatura della loro importanza.

(L'articolo verrà pubblicato sul settimanale "Il corriere dell'arte" in uscita il 2 aprile)

mercoledì 3 marzo 2010

Future Shock



Kafka portava l’animalità nell’uomo come linea di fuga dalla società. Damiano Pastore, sulla soglia tra creazione umana e natura, mura queste linee di fuga: sbandiera l’oggettistica nel mondo animale. L’animale diventa, o torna ad essere, oggetto.


Una murena imbalsamata e decorata potrebbe sostituire la bambola di porcellana nell’appartamento di qualche famiglia d’avanguardia. Tavolette dipinte e addobbate con schiere di cavallette, coleotteri e insetti vari, distribuiti geometricamente, crocifissi con umili spilli. Microsauri (prototipi di uccelli scarnificati) che combattono come soldatini.


Un video indaga le forme di un serpente, il muso di una volpe, un riccio, un cinghiale: l’obiettivo si avvicina cercando di fare luce sui loro misteri. Luce stroboscopica che Damiano Pastore ci punta negli occhi durante la visione del filmato, impedendoci di godere davvero delle immagini proiettate. Luce come conoscenza: analisi dell’animale e trasformazione dello stesso in un oggetto. Il tutto rifinito da una colonna sonora che, complice la luce stroboscopica, catapulta il mondo degli animali in una discoteca.


Una rana dipinta su uno sfondo rosa. Sembra un’icona. Le icone rimandano sempre a qualcosa: sono porte verso il sovrasensibile o, comunque, dovrebbero significare un orizzonte più ampio. Questa rana potrebbe essere l’icona del mondo degli animali. Quali animali? Dall’interno o dall’esterno, questi animali sono diventati oggetti da disporre a proprio piacimento. Oggetti da museo o da appartamento.

(L'articolo verrà pubblicato sul settimanale "Il corriere dell'arte" in uscita il 19 marzo)

venerdì 26 febbraio 2010

I due Massari


La signora Letizia, dello Studio D’Ars, conosce Antonio Massari. Lui le raccontò che, quand’era bambino, “restava incantato davanti ai cerchi ed alle macchie colorate della benzina”. Il primo Massari sembra proprio il tentativo di fermare e fissare quei colori e quelle forme liquide.

Luogo comune: il pittore pone dei colori su un foglio o su una tela.
Il primo Massari fa in modo che il foglio bianco si lasci dipingere e che assorba i colori riversati in un recipiente d’acqua. Ribaltamento del luogo comune.

L’acqua, al centro di questa sua fase artistica, è vita. Questo liquido sacro è l’origine della vita, la linfa che ci riempie le membra. Tracce di vita sono rimaste sui quadri del pittore di Lecce.
Opere quali Onde, Onde gotiche e Macchie fanno pensare a delle immagini del corpo umano visto dall’interno. Radiografie. La tecnica aiuta la vita gettandola oltre gli ostacoli. L’acqua è l’inizio della vita e, assieme agli strumenti tecnologici, ne è anche la continuazione.

La pittura del primo Massari non è astratta. È un arte che rappresenta la vita in senso universale: è qualcosa di oggettivo ma di non captabile dal punto di vista umano. Qualcosa di estremamente concreto. Quelle forme liquide fotografano la vita, vista dal punto di vista dell’Universo, nella continuità del suo moto.

Queste onde, colorate e non, vanno a formare le linee di contorno, non perfettamente delineate, di alcuni ritratti. La vita, presentata in modo universale dal primo Massari, dona un’anima ai soggetti rappresentati. La linfa vitale si concretizza in volti e corpi. Questo è il secondo Massari.