giovedì 7 novembre 2013

Only God forgives. Poteri secondo Refn

 [Pubblicato su D’ARS year 53/nr 215/autumn 2013, pp. 34-37.]

Ambientato in una Bangkok allucinata, tra palestre e locali notturni, Only God forgives di Nicolas Winding Refn unisce aspetti delle due precedenti opere del regista danese: le atmosfere ansiogene e i luoghi contemporanei di Drive (2011), qui cromati di diverse tonalità di rosso, si distillano secondo il ritmo e i tempi meditativi del dionisiaco Valhalla Rising (2009).
Considerando che in Refn i formalismi sono solo apparenti in quanto divengono pura sostanza dello sviluppo contenutistico e che le scelte stilistico-registiche sono sempre incisive a livello discorsivo, l’argomento della vendetta è il pretesto narrativo di un film che, non limitandosi a essere un semplice revenge movie, si apre su questioni altre
   
Nella capitale thailandese i fratelli Julian (Ryan Gosling) e Billy (Tom Burke) gestiscono una lussuosa palestra di pugilato come copertura dei loro traffici illeciti. Una sera Billy uccide una delle prostitute che abitualmente frequenta, una minorenne: le autorità locali si rivolgono a Chang (Vithaya Pansringarm), poliziotto in pensione, il quale vendica immediatamente la ragazza rifacendosi sull’assassino. In seguito all’episodio arriva in città, direttamente dagli Stati Uniti, Crystal (Kristin Scott Thomas), madre dei due fratelli nonché boss del clan, che domanda all’unico figlio rimasto – Julian – di vendicare il primogenito.

Mentre Confessions di Tetsuya Nakashima (produzione giapponese uscita nelle sale italiane poco prima di Only God forgives) potrebbe essere una sorta di trasposizione di alcune teorizzazioni di René Girard – difatti viene mostrata l’escalation della vendetta, dovuta all’uso sbagliato del pharmakos/capro espiatorio, una violenza senza misura che genera nuovi conflitti interpersonali e scioglie qualsiasi vincolo sociale – l’ultimo film di Refn si racconta in modo a-didascalico, a tratti (e paradossalmente) extradiegetico e divinizzando la non naturalistica finzione cinematografica.

L’opera si caratterizza per il ruolo della luce e l’uso della profondità di campo: la seconda permette di sfondare il piano dello schermo, andando continuamente a cercare qualcosa oltre i limiti spaziali e modificando di volta in volta i rapporti tra figure e campo. La luce filtrata dalle finestre, dall’altro, crea pattern luminosi tessuti secondo geometrie orientali, arabeschi immateriali che sovraimprimono, accumulano e prolungano la materia inanimata, facendola al tempo stesso vibrare e respirare. Il potere di raggiungere l’invisibile – profondità di campo – e di soffiare vita nella materia – uso delle luci – porta a inglobare il ruolo dei mezzi cinematografici nella diegesi, costringendo a una lettura della trama che consideri anche il ruolo demiurgico della finzione (o, se si preferisce, la natura artificiale di Dio). All’identità semidivina del mezzo cinematografico si contrappone la legge secolare personificata dal poliziotto in pensione: silenzioso, avanza contro chi viola la giustizia e, con la sua katana, punisce mutilando braccia e mani, danneggiando orecchie e occhi – non passa inosservata la citazione di Un chien andalou di Luis Buñuel. Negando ripetutamente l’organicità dei corpi senzienti, Chang esercita però un potere povero nelle sue risorse, un potere anti-energia e capace solo di dire no. Infatti, che sia la brutale deturpazione di un corpo o che sia una forma di violenza sublimata, l’azione di forza di un uomo nei confronti di un altro uomo è un gesto coercitivo che si protrae poco oltre il dolore di un istante e che, al di là della propria singolarità, lascia poche tracce.

In opposizione a Chang il regista pone la figura di Crystal, madre edipica e forse incestuosa, la quale non rappresenta solamente una donna ma inscena la Famiglia, la configurazione di un destino, il substrato storico-empirico che in-forma e in-canala un’esistenza. Crystal, capo dell’organizzazione criminale, è stata per i propri figli il luogo di iniziazione a un certo tipo di vita – delinquenziale – e, adesso, continua a produrre azioni in Julian, persuadendolo a uccidere il carnefice del fratello: la Madre, insomma, raffigura quel concatenamento di fattori che avvolgono e indirizzano la vita del singolo individuo prima ancora che questi sia stato concepito. Rispetto allo sterile e limitato potere di Chang, quello di Crystal è produttivo e formativo proprio come la finzione/demiurgo, di cui si è detto in precedenza.

Julian, co-protagonista e antieroe di Only God forgives, è oppresso dall’invisibile struttura – indagata con la profondità di campo e che ha le sembianze di Crystal – in cui è cresciuto e che continua a portarsi addosso, nonostante si sia trasferito in Tailandia. L’uomo, inoltre, è afflitto dal prospettarsi del duello fisico con l’invincibile Chang, uno scontro ormai imminente e inevitabile.

Tra i due poteri, Julian pare individuare il meno doloroso in quello umano, corporale, la forza esercitata da Chang; decide infatti di affrontare un pari natura sapendo di uscirne sconfitto e, quasi docilmente, si lascia amputare le mani dall’ex poliziotto, come se questa sanguinaria espiazione fosse comunque meno dolorosa del già-da-sempre-indossato abito esistenziale personificato dalla Madre. La scena-chiave del film, non a caso, vede Julian infilare un braccio nella ferita di Crystal, la quale era stata trafitta nel ventre dalla lama di Chang, simbolizzando così la morte della sua coercitiva matrice di vita e, soprattutto, tratteggiando la propria rinascita di uomo, ricominciando ancora dalla pancia della mamma.

martedì 29 ottobre 2013

Viva la libertà. Quale democrazia?

[Pubblicato su D’ARS Magazine / year 53/nr 214/summer 2013, pp. 52-55.]


Distribuito nelle sale pochi giorni prima delle ultime elezioni, Viva la libertà di Roberto Andò (regista palermitano formatosi al fianco di Francesco Rosi, Federico Fellini, Michael Cimino e Francis Ford Coppola) è una sorta di instant movie. Tratto da Il trono vuoto – romanzo dello stesso Andò edito da Bompiani nel 2012 – il lungometraggio è quasi interamente intarsiato dalla presenza di Toni Servillo, il quale si presta a essere ambiente, scenografia di un film nel film in cui i muscoli facciali e i gesti misurati dell’attore di Afragola, a tratti, assurgono al ruolo di veri protagonisti. Un Servillo catalizzatore e bifronte, esaltato dalla regia lineare, pulita, che lo incalza mettendosi al servizio del doppio-protagonista e delle figure che gli orbitano attorno.

Servillo è Enrico Olivieri, segretario del principale partito d’opposizione – il PD non viene nominato ma i riferimenti sono piuttosto espliciti. Piena campagna elettorale e sondaggi sfavorevoli ma l’ingessato leader, svuotato come il Titta Di Girolamo de Le conseguenze dell’amore o l’Andreotti de Il divo, si trascina secondo la grammatica e le abitudini di una logorante carriera politica, non focalizzando le prossime mosse strategiche. Personificazione dell’afasia di un certo ceto dirigenziale, sicuramente; ma anche crisi d’identità del personaggio, oltre che del partito. Questo smarrimento porta all’improvvisa fuga dell’Olivieri: senza preavviso e lasciando impreparato il partito, il segretario abbandona tutto e piomba segretamente a Parigi da una sua vecchia fiamma, Danielle (Valeria Bruni Tedeschi), la quale lavora sul set di una produzione cinematografica. Mentre a Roma la moglie (Michela Cescon) e il fedele collaboratore, Andrea Bottini (Valerio Mastandrea), si scervellano per non far giungere la notizia a media, militanti e avversari politici, Olivieri si rigenera nella casa di Danielle, cangiando in pensionato, adolescente innamorato e turista.

Servillo è anche il gemello dell’irrintracciabile segretario, Giovanni Ernani, studioso di filosofia appena rilasciato da una clinica psichiatrica in cui era ricoverato a causa di un supposto disturbo bipolare. L’Ernani entra in scena chiamato da Bottini per sostituire il fratello scomparso e, data la quasi-uguaglianza fisionomica, per salvare almeno fisicamente la credibilità del partito: è il ritorno del rimosso dalla società, dell’internato che ha imparato a costruirsi speranze e che, quindi, sa portarle ovunque. L’uomo entra nei panni del gemello sbrindellando il busto ortopedico dei costumi mediatici, infischiandosene dei modi preconfezionati e, da pezzo unico qual è, alza tutti gli indici di gradimento: duella con la stampa servendosi della propria lucida follia, dandole le parole che cerca ma senza camuffare la verità; incontra gli elettori recitando Pascal, Shakespeare, Brecht, intercettandone stati d’animo e situazioni; chiude la riunione di partito con un haiku giapponese; risolve i rapporti internazionali improvvisando un valzer con la cancelliera tedesca e, ricevuto dal Presidente della Repubblica, lo sfida giocando a nascondino nella Sala del Mappamondo.

Roberto Andò, attraverso il due ruoli di Servillo, ritrae un universo politico affetto da psicosi maniaco-depressiva: da un lato l’arresto ideativo di Olivieri, la sua incapacità di ordinare le impressioni e di decidere; dall’altro l’alterazione maniacale dell’Ernani, la sua coerente e positiva fuga di idee-parole. L’intreccio di doppi, però, non si limita ai due gemelli ma riguarda anche politica e cinema, realtà e finzione, Roma e Parigi, registro ironico ed esistenzialista. Doppi articolati in posizione chiastica: lo spento Olivieri è a Parigi, su un set cinematografico, nel mondo della finzione; il matto Ernani è a Roma, nelle istituzioni politiche, a contatto con una realtà depressa. La politica e il cinema non sono così lontani, il genio e il bluff coesistono, sentenzia un personaggio. Politica e cinema, quindi, politica e spettacolo; non a caso viene mostrata un’intervista d’archivio di Fellini il quale, lamentandosi dell’avanzare delle interruzioni pubblicitarie, esprime contenuti di protesta affini a quelli dei suoi ultimi film: l’irresponsabilità culturale e sociale di chi fa un uso demenziale della TV ma anche il patetismo di coloro che rimpiangono un mondo che non c’è più (Ginger e Fred), la visione dell’industria cinematografica come di una fabbrica di cialtronate (Intervista), la vana richiesta di silenzio per poter ascoltare ciò che altrimenti sfuggirebbe (La voce della luna).


All’interno di questo quadro, Andò traccia due linee: la prima è il recupero dell’identità del partito attraverso la tradizione, un linguaggio ancorato ad alcune menti del passato, i rapporti con l’eminenza grigia (Gianrico Tedeschi); la seconda, invece, consiste nei discorsi e nella fisicità espressiva dell’Ernani, nell’affinamento dell’arte retorica, nella persuasione dell’uditorio, nella comunicazione senza snaturamento delle proprie radici. Ritorno al passato e padronanza della parola pubblica, nulla di rivoluzionario si direbbe; anzi, il secondo punto ricorda una ricetta simile alla maniera del Prevalente. Eppure qualcosa di insolito potrebbe affiorare proprio da un comizio di Giovanni Ernani, il discorso fatto in piazza San Giovanni, dove recita A chi esita di Bertolt Brecht, più precisamente l’ultima frase, non aspettarti nessuna risposta oltre la tua. Non confidare nelle risposte dei delegati, non solo a causa dell’insipienza mostrata nell’ultimo ventennio ma proprio perché, come sostenevano Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels, la democrazia funziona e sopravvive solo nelle forme di un’oligarchia de facto di politici e burocrati: la partecipazione popolare c’è solo in occasione delle elezioni – è la teoria elitista di democrazia. Per tali politologi, sociologi ed economisti – apprezzati da Benito Mussolini – l’apatia politica del popolo è segno di buona salute, in quanto permette alla cerchia di esperti di lavorare in tranquillità. Al contrario, qui si ritiene che l’unica democrazia sia la democrazia diretta, dell’Atene del V e IV sec. a.C. – a maggior ragione dal momento che l’élite dirigente non è in grado di svolgere il proprio incarico. In società più vaste e complesse di quella ateniese, però, la democrazia diretta spesso è sembrata inattuabile. Oggi, però, nuovi elementi empirici – chiamiamoli così, per non fare l’ennesima apologia del web – consentono di inseguire l’utopia, di instaurare un dialogo tra le risposte offerte dai singoli cittadini; inoltre, mentre ad Atene gli schiavi non potevano prendere parte all’Assemblea, nel terzo millennio ogni individuo avrebbe la possibilità (non l’obbligo), partecipando con consapevolezza alla cosa pubblica, di non essere schiavo

lunedì 13 maggio 2013

Le Magasin des suicides. Soffocare negli abiti culturali


(Pubblicato sul numero 213 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pp. 48-51)

Un uomo scarno, con faccia stropicciata come la pagina di un quotidiano del giorno prima e occhiaie d’inchiostro sbavato, sta per lasciarsi cadere dal bordo del marciapiede proprio al passare di una vettura, quando viene afferrato per la collottola da un uomo piccoletto, col muso tra il carlino e lo strigiforme, il quale gli consiglia una soluzione più saggia, perché il suicidio è proibito in luoghi pubblici.

Andando con ordine, in Italia, e solo in Italia, Le Magasin des suicides di Patrice Leconte era stato inizialmente bollato – dalla Commissione di Revisione Cinematografica – con un divieto per i minori di diciotto anni. Tale decisione portò la casa di distribuzione a presentare ricorso e ritirare il film dalle sale; alla fine la polemica ha sì ritardato di una settimana l’uscita del film ma, in compenso, ha azzerato le restrizioni di pubblico.
Abbondantemente superati i sessant’anni, Patrice Leconte, che da Tandem (1987) in poi aveva svolto anche il ruolo di operatore in tutti i suoi lungometraggi (egli, infatti, sostiene che il controllo video falsi completamente il punto di vista del regista), si è avventurato nella direzione del suo primo film d’animazione, un po’ perché riteneva che fosse l’unica soluzione per adattare l’omonimo romanzo di Jean Teulé, un po’ per ritornare al proprio passato di disegnatore e amante di fumetti. Un diverso processo creativo, che lo ha portato a condividere le operazioni di regia con gli art director e, per velocizzare i lavori, ad affidarsi a tecnici di computer-generated imagery.
       
Il cineasta parigino ha costruito una città lugubre e sinistra, dove edifici minacciosamente alti parano ininterrottamente la luce del sole. Un luogo avvolto da un mantello di depressione, abitato da uomini e donne in attesa solamente dell’occasione per farla finita. Già, perché in questo 13° arrondissement a tinte gotiche il suicidio, desiderato e tollerato, è regolato: se lo si attua in strada, nel giro di pochi secondi, le sirene della polizia raggiungono il corpo inerte e lo infiocchettano con una sanzione pecuniaria. Una specie di Gotham City cartonata, popolata da un’umanità giunta all’ultimo stadio di decadenza, le cui ultime pulsioni di vita appartengono a grigie – cromaticamente, s’intende – alterità in posizioni marginali, se non esterne: i ratti che brulicano sottoterra – Leconte parla di loro come di un coro greco che commenta l’azione – e i guardinghi piccioni che cercano di restare in cielo più che possono così da non scottarsi con la cappa di sotto. Le sequenze d’indagine del paesaggio, in effetti, hanno la prospettiva mobile e impazzita di un occhio in volo.

In questa tetro alveare resiste e prospera un negozio colorato, una bomboniera luccicante apparentemente carnevalesca – ecco la soluzione più saggia anticipata a inizio articolo. È La bottega dei suicidi (titolo italiano del film) gestita dalla famiglia Tuvache:  il signor Mishima, la moglie Lucrèce e i due figli adolescenti, la rotondetta Marilyn e l’insetto stecco umanizzato Vincent -  i nomi rimandano allo scrittore giapponese Yukio Mishima, morto nel 1970 facendo harakiri in diretta tv, e ad altri personaggi dal destino simile, la leggendaria Lucrezia di Roma, Marilyn Monroe e Van Gogh. I Tuvache accontentano i loro clienti offrendo un vasto assortimento di rimedi per trapassare: dalle boccette di profumi velenosi per le signore eleganti alla virile katana per il culturista di passaggio, dalle scatole di cioccolatini con la scritta death for two per gli amanti indivisibili al sobrio cappio per individui solitari, fino al kit gratuito costituito da sacchetto di plastica + pezzo di nastro adesivo per chi deve accontentarsi di una morte povera. Offerte personalizzate, anche in base al portafoglio.

Vicino all’universo visivo del connazionale Sylvain Chomet, sfruttando le libertà espressive offerte dall’animazione bidimensionale – anche in forma di teatrini musicali della sfera onirica o psicologica dei personaggi – e venando di humour nero qualsiasi dinamica, Patrice Leconte caricaturizza un mondo privo di orizzonti, fatto da persone senza speranze e desideri. Una civiltà stanca, ferma e impotente, i cui ultimi beni su cui capitalizzare sono le morti dei suoi membri. Da un lato arricchimento economico per l’ultima stirpe di negozianti, dall’altro la gioia di vivere estrosamente la propria fine; e allora imperversano gli slogan: se la tua vita è un fallimento, fai della tua morte un successo!

Tutto procede cinicamente, clienti che vanno e che vengono; finché un giorno la signora Tuvache mette al mondo il suo terzogenito, Alan, un enorme sorriso a fetta d’anguria montato su un corpicino esile. I tentativi dei genitori per correggerne lo spicchio di felicità risultano inutili. Il bambino cresce e, maturando, aumenta la sua innata gioia di vivere, la quale, però, mal si sposa con l’atmosfera familiare e con l’immagine della bottega. Alan è un inizio di cambiamento, un nuovo vento che soffia contro la casa in cui è stato generato. E, col procedere della narrazione, il suo soffiare diviene sempre più un bombardare. La prima mossa consiste nel regalo di compleanno alla sorella Marilyn, un foulard rosa, con cui la ragazza, nascosta in cameretta, improvvisa balletti mediorientali e, facendoselo scorrere addosso, scopre spontaneamente il piacere del corpo, dell’essere sbirciata, da Alan e dai suoi amichetti, fino a scoperchiare i propri desideri affettivi, erotici. Day of Revolution / the revolution of the sexy lamb, scriveva Allen Ginsberg. Viene in mente l’insinuarsi della Venustas narrata dai poeti romani, quella forza graziosa che trascina dietro di sé, incatenati al loro desiderio, tutti gli esseri viventi.
Il secondo passo di Alan è un intervento progettato con la complicità di un carrozziere: armare un automobile di amplificatori e casse acustiche, parcheggiarla davanti al negozio di famiglia e aspettare di vederne gli effetti. La macchina è un grande cuore cibernetico, che sprigiona musica in tutto il quartiere, le vibrazioni crepano le pareti degli edifici, compresa la bottega di famiglia, diffondendo un ritmo coercitivo, che scuote fisicamente gli abitanti, percuotendoli fin nei loro animi. Musica come battiti di vita, ritrovata armonia, rifiuto di qualsivoglia significato sedimentato. Infine, oltre all’eros e alla musica, il terzo strumento di ribellione è la risata isterica che Alan suscita nel padre, buttandosi dal cornicione di un grattacielo per poi riapparire volteggiando nel vuoto, grazie a un materasso molleggiato posto ai piedi del palazzo. Una risata che travolge, seppellisce; e con Mishima, forse, stanno ridendo anche Nietzsche, Bakunin, Foucault…

Al di là di queste figure suggestive, con Le Magasin des suicides, Leconte sembra denunciare lo stato di apnea della zoé, della nuda vita, che mai come oggi sta soffocando nei propri abiti culturali.          

lunedì 4 febbraio 2013

Is it really [Reality]?


(Pubblicato sul numero 212 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pp. 40-43)

Era il 2008 quando Il divo di Paolo Sorrentino e Gomorra di Matteo Garrone conquistavano critica e spettatori, con tanto di premi, riconoscimenti e gratifica ai botteghini. Questi successi, che vanno rapportati all’odierna dimensione del cinema italiano e alla limitata visibilità di certi generi nelle nostre sale, hanno portato alla coproduzione italo-franco-irlandese diretta da Sorrentino, il buon This must be the place, e adesso, a distanza di un anno, all’uscita di un’altra coproduzione, questa volta solo italo-francese, Reality di Garrone.

Dopo la trasposizione cinematografica del romanzo di Roberto Saviano, Matteo Garrone voleva cambiare registro; con Reality, girando una sorta di commedia, il regista intreccia la rappresentazione del paesaggio culturale napoletano - profilato in alcuni tipi antropologici, angoli cittadini, tempi quotidiani e accenni di rituali - con quella della sfera psicologica di Luciano, protagonista del film, catturato in una giostra che si muove nei territori del paese in cui vive e tra gli spazi dei suoi desideri e delle sue percezioni: l’opera si sviluppa su piani in reciproca contaminazione, il livello che lo stesso Garrone definisce geografico e quello delle manifestazioni del mondo interiore di Luciano.

L’elemento partenopeo, coi suoi contrasti ed eccessi, ben si presta a un ritratto filmico dai lineamenti nitidi, le cui espressioni, se viste dalla giusta distanza, potrebbero trascenderne i confini, estendendosi a Roma, Milano, all’Italia intera o, meglio ancora, al presente dell’Occidente; difatti il regista, ai residui delle identità locali, miseramente concentrate nelle fisionomie degli attori e nelle parlate campane, applica delle maglie di interessi standardizzati, le quali conducono i personaggi in scena - relativamente diversi, in quanto la vista di Garrone si posa quasi esclusivamente su figure culturalmente vulnerabili - a frequentare non-luoghi edificati pressappoco su tutto il pianeta: ville che organizzano matrimoni, centri commerciali, parchi acquatici, programmi televisivi quali i reality show. I membri della famiglia estesa di Luciano si distribuiscono attorno alle stesse attività e, indifferentemente dalle età, si perdono in discorsi incentrati su argomenti simili. Significativa è la scena, preparata come una danza generazionale, in cui, sbirciando da una stanza all’altra dell’appartamento, vengono inquadrate nonna, madre e figlia mentre lasciano scivolare gli esagerati abiti della festa, con identica cura, scandendo ritmicamente i gesti, come fosse la spoliazione di un’unica donna, infondendo la comune rassegnazione a dover rindossare il loro aspetto quotidiano. La tematica dell’omologazione culturale e transgenerazionale fa da sfondo all’intera vicenda e, pur non diventandone mai il perno, si concretizza elegantemente in alcune delle migliori trovate registiche dell’opera; dall’altro, un secondo argomento accompagna costantemente Reality, quasi in modo didascalico, la dualità essere-apparire, la quale però, rispetto alle delicate descrizioni delle pratiche omologanti, viene liquidata banalmente in una prospettiva morale, senza essere problematizzata arriva come la compilazione di una tabella con le voci bene/male o giusto/sbagliato. L’ambiente e la mascherata di volti caratteristici, tra cui spiccano quello del barista interpretato da Ciro Petrone – uno dei due ragazzi di Gomorra – e la cortina antropomorfa di Aniello Arena – attore formatosi nella Casa di Reclusione di Volterra e che qui recita la parte di Luciano – sono raccolti da uno sguardo non documentaristico; l’atmosfera è quella del teatro napoletano, tra i luccichii del Paese dei Balocchi e gli acuti di una grande farsa. Luciano - il secondo livello a cui si accennava in precedenza - lavora in piazza come pescivendolo e, per arrotondare, architetta piccole truffe con la complicità della moglie e di un amico fidato; le sue giornate sono ravvivate dalla spettacolarità e dagli imprevisti che intervallano il tornaconto della famiglia e la vita del quartiere. Spronato dai parenti e dai conoscenti, un pomeriggio si sottopone a un provino per partecipare alla nuova edizione del Grande Fratello: Luciano passa la prima selezione e, sull’entusiasmo dei concittadini palpitanti all’idea di vedere un proprio capobranco catapultato nel mondo della televisione, si reca alla successiva; da questo momento inizia una lunga attesa, l’interminabile illusione di poter, prima o poi, oltrepassare la soglia dello schermo. Le inquadrature si adeguano allo stato d’animo del protagonista mettendo in dialogo il primo piano del suo volto con una girandola di figure fuori fuoco, le scene si modulano in lunghi movimenti di camera, il punto di vista coincide sempre più con quello di svariati occhi elettronici, da quello del circuito chiuso di un negozio a quello di un satellite, dalla macchina fotografica di un turista alla vista tentacolare del reality show. Le scelte registiche rendono in modo raffinato la mutata percezione di Luciano, alienato da tutto e da tutti, imprigionato nel sogno allucinogeno di poter sfondare, presto o tardi, la porta del Grande Fratello – e quella che era la sua quotidianità viene progressivamente smantellata dall’ossessione di essere interrottamente osservato, testato in vista dell’ingresso nel programma. Se la messa in scena è eccellente, la tematizzazione dei contenuti risulta meno interessante, nello specifico l’analisi dell’esercizio di potere da parte di un programma televisivo ai danni di una persona: il sogno di Luciano assume i connotati di un’ossessione, la quale finisce per caricaturizzarlo, per farne un folle, un uomo diverso sbalzato dalla comunità; Garrone medicalizza la dipendenza di Luciano, come se gli effetti di certi poteri fossero identificabili clinicamente. È davvero così? Esasperando le conseguenze di questi poteri, il regista manca la peculiarità della loro azione, la quale, forse, s’insinua più dolcemente, senza strilli e gesti estremi, allargandosi a macchia e producendo semplicemente normalità, non scemi del villaggio.  


sabato 10 novembre 2012

Soggetti sparsi, dispersi: "Bir zamanlar Anadolu'da" e "Detachment"


(Pubblicato sul numero 211 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pag. 68-71)

Bir zamanlar Anadolu'da
Il regista turco Nuri Bilge Ceylan ha fatto in modo che le relazioni interne a Bir zamanlar Anadolu'da (in italiano C'era una volta in Anatolia) e gli effetti generati dall'opera sul pubblico si sviluppassero con forti analogie. Sommariamente, il film potrebbe riassumersi nel viaggio di un commissario, un procuratore e un medico – e di un nutrito gruppo di lacchè – alla ricerca di un uomo assassinato e seppellito: la squadra vaga per le steppe dell'Anatolia seguendo le indicazioni del presunto omicida, un tipo silenzioso e confuso, che fatica a ricordare dove nascose la vittima; a notte fonda il gruppo decide di sostare presso il villaggio più vicino, ospite del sindaco; qui l'assassino torna a ricordare, o sceglie di ricordare, il luogo della sepoltura e, all'alba del giorno seguente, il corpo viene dissotterrato e portato in città, per essere riconosciuto dalla moglie e per eseguire l'autopsia.
La luce lunare e i fari delle automobili svelano la prima parte della pellicola, mostrando in campo lungo il peregrinare delle tre automobili, alle calcagna della memoria perduta della guida; Nuri Bilge Ceylan fornisce i riferimenti lentamente rilevati dai personaggi, ponendo così gli spettatori allo stesso livello esperienziale: sensazioni di spaesamento e conseguenti stati d'animo. Ogni qualvolta, però, si attende l'evoluzione della vicenda, la camera fa un passo in là, si allontana, spostando la scena, per esempio, sulle conversazioni nell'autovettura e rifrangendo la linea narrativa in altri nuclei che, a loro volta, verranno scientemente persi di vista, per poi essere ripresi. Questo procedere, apparentemente dispersivo, tesse una ragnatela di incontri e centri d'interesse, antitetica rispetto alla convenzionale consequenzialità tematica delle comuni dimensioni diegetiche: ogni fatto si relativizza in un girocollo di questioni affini, irrisolti passati dei personaggi o concrete situazioni sul luogo. I concatenamenti di interruzioni e deviazioni sbrindellano la forma-azione e ricreano, sia per i protagonisti che per gli spettatori, un ordito accostabile a quello della vita reale, nella quale è proprio l'incespicare in improvvisi frammenti a disegnare la mappa dei prossimi movimenti. Questo meccanismo è riprodotto anche nel secondo atto di Bir zamanlar Anadolu'da che, ambientato nell'abitazione del sindaco e illuminato solamente da qualche candela, rimanda a certi dipinti di Georges de La Tour e Jan Vermeer. Per tutta la durata il film è caratterizzato da alcune costanti: il viaggio che coordina ogni discorso, un personaggio (commissario, procuratore, medico) che a turno prevale in ogni atto, la studiata differenziazione delle fonti di luce (luna e fari, candele, sole) che contribuisce alla tripartizione dell'opera – e lo scoprirsi degli individui che sovrasta le scoperte lungo il tragitto (la precaria salute del rampollo del commissario, la tragedia della consorte del procuratore, il cambiamento di prospettiva del medico che, avvicinandosi diversamente agli uomini, scortica la propria visione asettica e scientifica); ma a dominare è il continuo frangersi del presente in contraddizioni e affinità, come nella scena finale, nella quale l'esame autoptico è simultaneo allo sguardo del dottore, i cui occhi, dalla finestra dell'ospedale, colgono il figlio della vittima vicino a dei coetanei che giocano con una palla.

Detachment
Pittore, compositore, cantante, regista di video musicali, il londinese Tony Kaye, che nel 1998 aveva esordito nel mondo del cinema con il lungometraggio American History X, è tornato sui grandi schermi con Detachment (occorre ricordare anche Lake of Fire, documentario del 2006 mai distribuito nelle sale italiane).
Profilo sottile, naso importante e affilato, le sopracciglia che indicano i padiglioni auricolari, l'attore Adrian Brody incarna Henry Barthes, supplente di letteratura catapultato in un liceo della periferia americana; in quest'edificio ha a che fare con un campionario di adolescenti problematici, ragazzi privi di interesse o di speranze, studenti coi quali è impossibile tenere una lezione frontale, che necessitano di essere scavati nella loro realtà socio-familiare e che rispondono soltanto davanti a un insegnante in grado di scollarsi dalla cattedra e affrontare personalmente le loro storie. Detachment può essere visto come una riflessione per immagini sull'inadeguatezza della scuola pubblica negli Stati Uniti, la cui efficienza in determinati contesti pare dipendere esclusivamente dal sovrappiù di qualità umane del corpo docente. Tony Kaye, però, ha messo in scena qualcosa di diverso da un semplice e ben riuscito manifesto di denuncia: al di là delle animazioni stilizzate che preludono ai momenti di maggior drammaticità e non fermandosi alle indagini psicologiche dei primi piani (pur apprezzandone la maestrìa), la pellicola apre a questioni quali l'identità e il soggetto. L'insegnante Henry Barthes emerge assieme alle eterogenee narrazioni rappresentate: la giovane prostituta, coetanea dei suoi alunni, accolta e medicata nella propria casa; le confessioni di una studentessa umiliata dai compagni e denigrata da un padre incapace di apprezzarne l'estro  fotografico; la classe scolastica nella totalità e nelle difficili individualità; il nonno, logorato dalla demenza senile, che lo costringe a corse notturne sul luogo del ricovero; i continui flash-back che raccontano la sua infanzia, l'episodio del suicidio della madre. Henry Barthes si staglia su tutte queste emergenze ma è anche il punto di vista, lo sguardo che le raccoglie; la sua peculiarità risiede nel distacco – detachment, appunto – attuato ogni volta in cui, a causa di queste relazioni, sente il rischio di bloccarsi in un'identità, "non mi sono mai sentito così profondamente distaccato da me stesso e al contempo così presente nel mondo", citazione di Albert Camus che testimonia lo status del docente come presenza di un'intermittente assenza a sé. Il distacco più faticoso è quello dal suo passato di bambino, dalla prematura scomparsa della figura materna: immagini dolorose di una ferita difficile da rimarginare, conoscenza del dolore che diventa precondizione di un'inconscia strategia relazionale. Anche la professione di supplente, emblema della precarietà, conferma la condizione dell'uomo: Henry Barthes è una casella vuota, una cattedra vagante, la cui formazione di senso viene sempre determinata dal rapporto, in divenire, con le altre pedine della costellazione; non a caso, lo scatto elaborato dall'alunna-fotografa lo ritrae senza volto, coi tratti del viso cancellati in una nuvola bianca, companatico della sua affermazione "io non sono qui, anche se mi vedi in realtà non ci sono".

lunedì 8 ottobre 2012

Margini della comunità: "Là-bas" e "Cesare deve morire"



(Pubblicato sul numero 210 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pag. 48-51)

Là-bas
Se la proiezione di Là-bas dovesse avere una destinazione prioritaria non si tratterebbe del pubblico italiano ma delle persone in procinto di emigrare nel Bel Paese, convinte di migliorare la loro esistenza. Il primo lungometraggio del regista Guido Lombardi, in passato collaboratore di Abel Ferrara e Paolo Sorrentino, prese forma nel 2006; idee e trama hanno subìto modifiche in seguito alla strage di Castel Volturno del 18 Settembre 2008, nella quale un commando di camorristi uccise sei ghanesi – le indagini della magistratura hanno concluso che nessuna delle vittime era dedita a traffici criminali.
L’opera, in francese con sottotitoli in italiano, è recitata prevalentemente da attori non professionisti - provenienti da diversi Stati del Continente Nero – il cui vissuto contempla  esperienze in parte affini a quelle rappresentate.
Con Là-bas Guido Lombardi ha descritto il fenomeno dell’integrazione dei clandestini nel casertano come fosse un lungo rito, la cui paradossale particolarità consiste nell’incapacità di cambiare la posizione sociale dell’iniziato, un percorso codificato le cui alternative, bene che vada, riportano al punto di partenza.
L’iniziato si chiama Yussouf, è un giovane africano giunto in Italia per guadagnare il denaro necessario all’acquisto di un macchinario che realizzerebbe le sculture da lui disegnate.  La sua prima tappa è l’approdo nella casa delle candele, una villa occupata da una comunità di immigrati di colore, dove si sopravvive vendendo fazzoletti ai semafori o suonando per strada. In questo luogo Yussouf trova solidarietà, calore e un’inaridita simulazione del suo habitat culturale; ma si accorge che, restando qui, bloccherebbe il progetto in cui crede, perché la casa delle candele altro non è che un simulacro ghettizzato della sua terra d’origine.
Il ragazzo entra quindi in contatto con lo zio Moses, da anni trasferitosi a Castel Volturno, questi gli trova un lavoro in nero presso un autolavaggio, dove verrà sfruttato e sottopagato: la scena nella quale Yussouf lava un’automobile, spruzzandola con la canna dell’acqua, è di un’intensità tale da arrivare come un gesto di pulitura dal colore-etichetta della pelle che, il ragazzo, sente legato alle sue sventure. 
La terza fase verte sul coinvolgimento del viandante nello spaccio di cocaina dello zio: a contatto con tutte le sfaccettature del crimine, Yussouf inizia a ottenere i soldi indispensabili alle sue ambizioni d’artista; però soffre fortemente il rapporto di servitù coi bianchi della zona e, penetrando sempre più nelle dinamiche del business, intuisce che non sarà facile uscirne. Finché, una notte, i soci camorristi compiono una carneficina di africani, Yussouf riesce a fuggire nel bosco, dove si spoglia dallo smoking bianco per mimetizzarsi agli occhi degli inseguitori. Scampato il pericolo torna a bussare alla casa delle candele, la già attraversata replica dell’Africa abbandonata: è totalmente nudo, viene riaccolto e avvolto con la bandiera del Senegal. L’odissea non ha trasformato Yussouf in un cittadino e le sue sculture sono ancora invisibili, proprio come lui.


Cesare deve morire
Paolo e Vittorio Taviani restarono folgorati, da spettatori, davanti alle esperienze teatrali portate avanti nel carcere di Rebibbia, a Roma, con i detenuti della sezione di Alta Sicurezza – reclusi per mafia, camorra, ‘ndrangheta, tra cui alcuni ergastolani. Cesare deve morire nasce coinvolgendo questi uomini e, con loro, si sposta nelle celle, nei cunicoli e nei bracci della prigione. I due cineasti proposero al regista Fabio Cavalli, dal 2002 direttore di queste attività, di realizzare il Giulio Cesare di Shakespeare. Il testo, che interroga tematiche quali la libertà e il rapporto tra potere politico e individuo, abbraccia e problematizza la condizione di persone costrette a scontare gli esiti di un conflitto con l’autorità: la sovrapposizione tra la recitazione e il vissuto degli attori sprigiona una forza di verità inottenibile con interpreti professionisti e in alcune scene fa emergere, prima per i protagonisti e poi sulla pellicola, irrisolte questioni personali. Per quasi tutta la durata del film, infatti, la narrazione si concentra sui preparativi per l’esibizione finale, andando a rendere indistinguibili i momenti di prove dalla meccanica routine del penitenziario. I fratelli Taviani hanno ammantato la loro opera in un bianco e nero moderno, così da non scivolare nel facile naturalismo televisivo, un bianco e nero esaltato dall’illuminazione, la quale ha inasprito i contrasti e ha conferito un ruolo importante ai lineamenti spigolosi del luogo. Complice della fotografia, l’inconsueto campionario delle fisionomie indagate ha trasfigurato il carcere in un paese fuori dal tempo, un ambiente articolato dai gesti e dalle parole dialettali, dagli sguardi e da quelle voci che fin dalle prime scene, durante i provini, avevano declamato le proprie generalità, quasi a ricordare al resto del mondo che loro erano lì ed erano vivi. La rappresentazione della tragedia di Shakespeare, oltre ad essere un’occasione di autoanalisi per gli attori e al di là dell’essersi concretizzata in forma di evento cinematografico per noi spettatori, diventa uno spettacolo all’interno della prigione, incuriosendo tutti gli abitanti di quel non-luogo, compresi gli uomini della sorveglianza; e allora il tempo trascorso a esercitarsi sul copione assume per l’intero carcere il senso di un’evasione, virtuale ma terapeutica, una dimensione improntata sull’alternanza di poetica alienazione e cruda lucidità. L’agognato spettacolo finale, su un vero palcoscenico e davanti a un pubblico vario, consegna agli attori la presenza, qui e ora, di possibilità altre – non a caso il bianco e nero concede spazio ai colori –, possibilità che inducono Cassio ad affermare “da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata una prigione”.  

lunedì 18 giugno 2012

Moneyball. Un delicato gioco tra Idee e realtà


(Pubblicato sul numero 209 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pag. 40-43)

Con il suo lungometraggio d’esordio, Capote (2005), il regista Bennett Miller aveva raggiunto in brevissimo tempo i ranghi più nobili della poetica cinematografica contemporanea. A sei anni di distanza presenta finalmente la sua opera seconda, Moneyball (in Italia tradotto con il titolo L’arte di Vincere), anch’essa imparentata con un libro: se il precedente film trattava la genesi di In cold blood di Truman Capote, capostipite dei romanzi-reportage, il soggetto di Moneyball nasce direttamente dall’omonimo testo di Michael Lewis.

Fin dalle sgranate immagini d’apertura si intuisce che, nonostante il baseball non sia solamente un espediente narrativo, lo svolgimento e la messa in scena si allontaneranno dal genere favolistico sullo sport - forse perché è una storia vera? Infatti, anche nelle sequenze cariche d’agonismo, non verrà mai abbandonata la vista degli uffici e dei corridoi del McAfee Coliseum, come un velo di ordinarietà che inibisce la facile investitura di eroi nel bel mezzo delle partite; in fondo Moneyball è soprattutto un’opera sulla forza delle idee e sulla loro incidenza, in positivo e in negativo. Di idee ha bisogno Billy Beane (Brad Pitt), general manager della squadra di baseball degli Oakland Athletics, quando il suo presidente, senza disporre dei soldi per acquistare giocatori blasonati, gli chiede di costruire una compagine competitiva. Billy riunisce lo staff di collaboratori, anziani talent scout dalle magliette slabbrate, i cui consigli per uscire dall’impasse hanno la profondità di un sapere da fondo di caffè e scaturiscono da impressioni maturate con l’esperienza ma incapaci di ridurre le probabilità di errore nella selezione dei giocatori; Billy lo sa bene perché, in gioventù, rinunciò avventatamente all’università per seguire l’abbaglio di un talent scout. Tra una telefonata e una sala d’attesa il general manager realizza che, seguendo la stagnante e arcaica maniera di lavorare, non oltrepasserà mai i limiti imposti dal denaro. Efficacia e funzionamento del sistema sono compromessi dalle logorate fondamenta economiche. La svolta avviene grazie all’impacciato Peter Brand (Jonah Hill), neolaureato in economia, assunto coraggiosamente da Billy Beane come assistente personale: il general manager viene sedotto dalla teoria sabermetrica espostagli dal giovane economista. Secondo la sabermetrica i giocatori vanno selezionati sulla base della loro on base percentage (OBP), percentuale che indica il numero delle volte in cui un atleta riesce a conquistare una base senza l’aiuto di penalità. Analisi statistiche computerizzate consentono di individuare i giocatori con alta OBP, spesso scartati dalle altre squadre a causa di preconcetti o di presunti difetti, definendo così un organico capace di portare come collettivo, e non puntando sulle abilità individuali di pochi costosi campioni, i punti necessari per vincere. Guardando il baseball attraverso la nuova griglia concettuale, Billy Beane e Peter Brand creano un’isola di giocattoli difettosi, il cui prezzo è largamente alla portata degli Oakland Athletics. La nuova strategia gestionale consiste nello spostamento del punto di vista, in modo che lo sguardo vada a cadere su aspetti prima invisibili, la cui messa a fuoco svela insperate prospettive. Non è casuale l’inquadratura di Peter Brand, predicatore dei princìpi innovatori, appisolato su un letto a due piazze e con, al posto dell’abituale crocifisso, un poster di una scultura ritraente Platone: come spiegato da Gilles Deleuze, il filosofo ateniese creò le Idee per districare situazioni concrete nella Grecia del tempo, erano strumenti concettuali atti a selezionare i pretendenti ai diversi ruoli sociali. Senza insistere nella ricerca di forzate analogie, si può affermare che anche Billy Beane e Peter Brand si avvalgono di nuovi oggetti ideali per uscire dalle tangibili difficoltà societarie. Bennett Miller indaga le avversità incontrate, le resistenze politiche di una tradizione radicata, per esempio, fino alle sedie del luogo di lavoro, esibisce le sfaccettature di una mentalità ostile alla novità, come se quest’ultima rappresentasse una sinistra scossa sismica da evitare. La forza di volontà occorrente alla riuscita del cambiamento è testimoniata dalla ricorrente immagine del profilo laminato di Billy Beane, chiuso di sera nella propria automobile, a smaltire la tensione per le prime sconfitte subite dagli Oakland Athletics, fattualità figlie di una strategia mai sperimentata e che, in caso di fallimento, metterebbe in discussione la figura professionale del general manager; eppure il buio non riuscirà a divorarne la linea luminosa del volto e, dopo gli stenti iniziali, la squadra inanellerà venti vittorie consecutive.

Il modo in cui Moneyball affronta il baseball allude sostanzialmente alla questione delle classi dirigenti, al fatto che esse sappiano inventare qualcosa per venire fuori da vicoli apparentemente ciechi, che abbiano l’audacia di osare e sperimentare.
Sempre per restare ancorato all’attualità, Bennett Miller inserisce parallelamente un discorso relativo all’eccessiva speculazione e ai disagi portati da una sconsiderata astrazione: giocatori licenziati e manovrati come fossero masse di numeri, un allenatore (Philip Seymour Hoffman) impotente ed inutile davanti alla gestione statistica della squadra, esigenze umane completamente messe da parte; tutto ciò va a limare facili entusiasmi e previene pericolosi fondamentalismi. Le inquadrature notturne sulle desolate gradinate dello stadio, dove Billy Beane rimane abitualmente a meditare, possono rimandare al teatro greco, la cui vitalità è stata prosciugata, secondo le parole di Friedrich Nietzsche, dalla razionalità socratica. Un implicito avvertimento a non istituire un impero di creazioni concettuali scisso dalla realtà, a non ingabbiare la sfera empirica in un reticolo di trame e dati, a evitare che l’esistente venga svuotato delle proprie energie contraddittorie o dei suoi affascinanti imprevisti, come accaduto con la tragedia greca delle origini.