sabato 10 novembre 2012

Soggetti sparsi, dispersi: "Bir zamanlar Anadolu'da" e "Detachment"


(Pubblicato sul numero 211 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pag. 68-71)

Bir zamanlar Anadolu'da
Il regista turco Nuri Bilge Ceylan ha fatto in modo che le relazioni interne a Bir zamanlar Anadolu'da (in italiano C'era una volta in Anatolia) e gli effetti generati dall'opera sul pubblico si sviluppassero con forti analogie. Sommariamente, il film potrebbe riassumersi nel viaggio di un commissario, un procuratore e un medico – e di un nutrito gruppo di lacchè – alla ricerca di un uomo assassinato e seppellito: la squadra vaga per le steppe dell'Anatolia seguendo le indicazioni del presunto omicida, un tipo silenzioso e confuso, che fatica a ricordare dove nascose la vittima; a notte fonda il gruppo decide di sostare presso il villaggio più vicino, ospite del sindaco; qui l'assassino torna a ricordare, o sceglie di ricordare, il luogo della sepoltura e, all'alba del giorno seguente, il corpo viene dissotterrato e portato in città, per essere riconosciuto dalla moglie e per eseguire l'autopsia.
La luce lunare e i fari delle automobili svelano la prima parte della pellicola, mostrando in campo lungo il peregrinare delle tre automobili, alle calcagna della memoria perduta della guida; Nuri Bilge Ceylan fornisce i riferimenti lentamente rilevati dai personaggi, ponendo così gli spettatori allo stesso livello esperienziale: sensazioni di spaesamento e conseguenti stati d'animo. Ogni qualvolta, però, si attende l'evoluzione della vicenda, la camera fa un passo in là, si allontana, spostando la scena, per esempio, sulle conversazioni nell'autovettura e rifrangendo la linea narrativa in altri nuclei che, a loro volta, verranno scientemente persi di vista, per poi essere ripresi. Questo procedere, apparentemente dispersivo, tesse una ragnatela di incontri e centri d'interesse, antitetica rispetto alla convenzionale consequenzialità tematica delle comuni dimensioni diegetiche: ogni fatto si relativizza in un girocollo di questioni affini, irrisolti passati dei personaggi o concrete situazioni sul luogo. I concatenamenti di interruzioni e deviazioni sbrindellano la forma-azione e ricreano, sia per i protagonisti che per gli spettatori, un ordito accostabile a quello della vita reale, nella quale è proprio l'incespicare in improvvisi frammenti a disegnare la mappa dei prossimi movimenti. Questo meccanismo è riprodotto anche nel secondo atto di Bir zamanlar Anadolu'da che, ambientato nell'abitazione del sindaco e illuminato solamente da qualche candela, rimanda a certi dipinti di Georges de La Tour e Jan Vermeer. Per tutta la durata il film è caratterizzato da alcune costanti: il viaggio che coordina ogni discorso, un personaggio (commissario, procuratore, medico) che a turno prevale in ogni atto, la studiata differenziazione delle fonti di luce (luna e fari, candele, sole) che contribuisce alla tripartizione dell'opera – e lo scoprirsi degli individui che sovrasta le scoperte lungo il tragitto (la precaria salute del rampollo del commissario, la tragedia della consorte del procuratore, il cambiamento di prospettiva del medico che, avvicinandosi diversamente agli uomini, scortica la propria visione asettica e scientifica); ma a dominare è il continuo frangersi del presente in contraddizioni e affinità, come nella scena finale, nella quale l'esame autoptico è simultaneo allo sguardo del dottore, i cui occhi, dalla finestra dell'ospedale, colgono il figlio della vittima vicino a dei coetanei che giocano con una palla.

Detachment
Pittore, compositore, cantante, regista di video musicali, il londinese Tony Kaye, che nel 1998 aveva esordito nel mondo del cinema con il lungometraggio American History X, è tornato sui grandi schermi con Detachment (occorre ricordare anche Lake of Fire, documentario del 2006 mai distribuito nelle sale italiane).
Profilo sottile, naso importante e affilato, le sopracciglia che indicano i padiglioni auricolari, l'attore Adrian Brody incarna Henry Barthes, supplente di letteratura catapultato in un liceo della periferia americana; in quest'edificio ha a che fare con un campionario di adolescenti problematici, ragazzi privi di interesse o di speranze, studenti coi quali è impossibile tenere una lezione frontale, che necessitano di essere scavati nella loro realtà socio-familiare e che rispondono soltanto davanti a un insegnante in grado di scollarsi dalla cattedra e affrontare personalmente le loro storie. Detachment può essere visto come una riflessione per immagini sull'inadeguatezza della scuola pubblica negli Stati Uniti, la cui efficienza in determinati contesti pare dipendere esclusivamente dal sovrappiù di qualità umane del corpo docente. Tony Kaye, però, ha messo in scena qualcosa di diverso da un semplice e ben riuscito manifesto di denuncia: al di là delle animazioni stilizzate che preludono ai momenti di maggior drammaticità e non fermandosi alle indagini psicologiche dei primi piani (pur apprezzandone la maestrìa), la pellicola apre a questioni quali l'identità e il soggetto. L'insegnante Henry Barthes emerge assieme alle eterogenee narrazioni rappresentate: la giovane prostituta, coetanea dei suoi alunni, accolta e medicata nella propria casa; le confessioni di una studentessa umiliata dai compagni e denigrata da un padre incapace di apprezzarne l'estro  fotografico; la classe scolastica nella totalità e nelle difficili individualità; il nonno, logorato dalla demenza senile, che lo costringe a corse notturne sul luogo del ricovero; i continui flash-back che raccontano la sua infanzia, l'episodio del suicidio della madre. Henry Barthes si staglia su tutte queste emergenze ma è anche il punto di vista, lo sguardo che le raccoglie; la sua peculiarità risiede nel distacco – detachment, appunto – attuato ogni volta in cui, a causa di queste relazioni, sente il rischio di bloccarsi in un'identità, "non mi sono mai sentito così profondamente distaccato da me stesso e al contempo così presente nel mondo", citazione di Albert Camus che testimonia lo status del docente come presenza di un'intermittente assenza a sé. Il distacco più faticoso è quello dal suo passato di bambino, dalla prematura scomparsa della figura materna: immagini dolorose di una ferita difficile da rimarginare, conoscenza del dolore che diventa precondizione di un'inconscia strategia relazionale. Anche la professione di supplente, emblema della precarietà, conferma la condizione dell'uomo: Henry Barthes è una casella vuota, una cattedra vagante, la cui formazione di senso viene sempre determinata dal rapporto, in divenire, con le altre pedine della costellazione; non a caso, lo scatto elaborato dall'alunna-fotografa lo ritrae senza volto, coi tratti del viso cancellati in una nuvola bianca, companatico della sua affermazione "io non sono qui, anche se mi vedi in realtà non ci sono".

lunedì 8 ottobre 2012

Margini della comunità: "Là-bas" e "Cesare deve morire"



(Pubblicato sul numero 210 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pag. 48-51)

Là-bas
Se la proiezione di Là-bas dovesse avere una destinazione prioritaria non si tratterebbe del pubblico italiano ma delle persone in procinto di emigrare nel Bel Paese, convinte di migliorare la loro esistenza. Il primo lungometraggio del regista Guido Lombardi, in passato collaboratore di Abel Ferrara e Paolo Sorrentino, prese forma nel 2006; idee e trama hanno subìto modifiche in seguito alla strage di Castel Volturno del 18 Settembre 2008, nella quale un commando di camorristi uccise sei ghanesi – le indagini della magistratura hanno concluso che nessuna delle vittime era dedita a traffici criminali.
L’opera, in francese con sottotitoli in italiano, è recitata prevalentemente da attori non professionisti - provenienti da diversi Stati del Continente Nero – il cui vissuto contempla  esperienze in parte affini a quelle rappresentate.
Con Là-bas Guido Lombardi ha descritto il fenomeno dell’integrazione dei clandestini nel casertano come fosse un lungo rito, la cui paradossale particolarità consiste nell’incapacità di cambiare la posizione sociale dell’iniziato, un percorso codificato le cui alternative, bene che vada, riportano al punto di partenza.
L’iniziato si chiama Yussouf, è un giovane africano giunto in Italia per guadagnare il denaro necessario all’acquisto di un macchinario che realizzerebbe le sculture da lui disegnate.  La sua prima tappa è l’approdo nella casa delle candele, una villa occupata da una comunità di immigrati di colore, dove si sopravvive vendendo fazzoletti ai semafori o suonando per strada. In questo luogo Yussouf trova solidarietà, calore e un’inaridita simulazione del suo habitat culturale; ma si accorge che, restando qui, bloccherebbe il progetto in cui crede, perché la casa delle candele altro non è che un simulacro ghettizzato della sua terra d’origine.
Il ragazzo entra quindi in contatto con lo zio Moses, da anni trasferitosi a Castel Volturno, questi gli trova un lavoro in nero presso un autolavaggio, dove verrà sfruttato e sottopagato: la scena nella quale Yussouf lava un’automobile, spruzzandola con la canna dell’acqua, è di un’intensità tale da arrivare come un gesto di pulitura dal colore-etichetta della pelle che, il ragazzo, sente legato alle sue sventure. 
La terza fase verte sul coinvolgimento del viandante nello spaccio di cocaina dello zio: a contatto con tutte le sfaccettature del crimine, Yussouf inizia a ottenere i soldi indispensabili alle sue ambizioni d’artista; però soffre fortemente il rapporto di servitù coi bianchi della zona e, penetrando sempre più nelle dinamiche del business, intuisce che non sarà facile uscirne. Finché, una notte, i soci camorristi compiono una carneficina di africani, Yussouf riesce a fuggire nel bosco, dove si spoglia dallo smoking bianco per mimetizzarsi agli occhi degli inseguitori. Scampato il pericolo torna a bussare alla casa delle candele, la già attraversata replica dell’Africa abbandonata: è totalmente nudo, viene riaccolto e avvolto con la bandiera del Senegal. L’odissea non ha trasformato Yussouf in un cittadino e le sue sculture sono ancora invisibili, proprio come lui.


Cesare deve morire
Paolo e Vittorio Taviani restarono folgorati, da spettatori, davanti alle esperienze teatrali portate avanti nel carcere di Rebibbia, a Roma, con i detenuti della sezione di Alta Sicurezza – reclusi per mafia, camorra, ‘ndrangheta, tra cui alcuni ergastolani. Cesare deve morire nasce coinvolgendo questi uomini e, con loro, si sposta nelle celle, nei cunicoli e nei bracci della prigione. I due cineasti proposero al regista Fabio Cavalli, dal 2002 direttore di queste attività, di realizzare il Giulio Cesare di Shakespeare. Il testo, che interroga tematiche quali la libertà e il rapporto tra potere politico e individuo, abbraccia e problematizza la condizione di persone costrette a scontare gli esiti di un conflitto con l’autorità: la sovrapposizione tra la recitazione e il vissuto degli attori sprigiona una forza di verità inottenibile con interpreti professionisti e in alcune scene fa emergere, prima per i protagonisti e poi sulla pellicola, irrisolte questioni personali. Per quasi tutta la durata del film, infatti, la narrazione si concentra sui preparativi per l’esibizione finale, andando a rendere indistinguibili i momenti di prove dalla meccanica routine del penitenziario. I fratelli Taviani hanno ammantato la loro opera in un bianco e nero moderno, così da non scivolare nel facile naturalismo televisivo, un bianco e nero esaltato dall’illuminazione, la quale ha inasprito i contrasti e ha conferito un ruolo importante ai lineamenti spigolosi del luogo. Complice della fotografia, l’inconsueto campionario delle fisionomie indagate ha trasfigurato il carcere in un paese fuori dal tempo, un ambiente articolato dai gesti e dalle parole dialettali, dagli sguardi e da quelle voci che fin dalle prime scene, durante i provini, avevano declamato le proprie generalità, quasi a ricordare al resto del mondo che loro erano lì ed erano vivi. La rappresentazione della tragedia di Shakespeare, oltre ad essere un’occasione di autoanalisi per gli attori e al di là dell’essersi concretizzata in forma di evento cinematografico per noi spettatori, diventa uno spettacolo all’interno della prigione, incuriosendo tutti gli abitanti di quel non-luogo, compresi gli uomini della sorveglianza; e allora il tempo trascorso a esercitarsi sul copione assume per l’intero carcere il senso di un’evasione, virtuale ma terapeutica, una dimensione improntata sull’alternanza di poetica alienazione e cruda lucidità. L’agognato spettacolo finale, su un vero palcoscenico e davanti a un pubblico vario, consegna agli attori la presenza, qui e ora, di possibilità altre – non a caso il bianco e nero concede spazio ai colori –, possibilità che inducono Cassio ad affermare “da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata una prigione”.  

lunedì 18 giugno 2012

Moneyball. Un delicato gioco tra Idee e realtà


(Pubblicato sul numero 209 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pag. 40-43)

Con il suo lungometraggio d’esordio, Capote (2005), il regista Bennett Miller aveva raggiunto in brevissimo tempo i ranghi più nobili della poetica cinematografica contemporanea. A sei anni di distanza presenta finalmente la sua opera seconda, Moneyball (in Italia tradotto con il titolo L’arte di Vincere), anch’essa imparentata con un libro: se il precedente film trattava la genesi di In cold blood di Truman Capote, capostipite dei romanzi-reportage, il soggetto di Moneyball nasce direttamente dall’omonimo testo di Michael Lewis.

Fin dalle sgranate immagini d’apertura si intuisce che, nonostante il baseball non sia solamente un espediente narrativo, lo svolgimento e la messa in scena si allontaneranno dal genere favolistico sullo sport - forse perché è una storia vera? Infatti, anche nelle sequenze cariche d’agonismo, non verrà mai abbandonata la vista degli uffici e dei corridoi del McAfee Coliseum, come un velo di ordinarietà che inibisce la facile investitura di eroi nel bel mezzo delle partite; in fondo Moneyball è soprattutto un’opera sulla forza delle idee e sulla loro incidenza, in positivo e in negativo. Di idee ha bisogno Billy Beane (Brad Pitt), general manager della squadra di baseball degli Oakland Athletics, quando il suo presidente, senza disporre dei soldi per acquistare giocatori blasonati, gli chiede di costruire una compagine competitiva. Billy riunisce lo staff di collaboratori, anziani talent scout dalle magliette slabbrate, i cui consigli per uscire dall’impasse hanno la profondità di un sapere da fondo di caffè e scaturiscono da impressioni maturate con l’esperienza ma incapaci di ridurre le probabilità di errore nella selezione dei giocatori; Billy lo sa bene perché, in gioventù, rinunciò avventatamente all’università per seguire l’abbaglio di un talent scout. Tra una telefonata e una sala d’attesa il general manager realizza che, seguendo la stagnante e arcaica maniera di lavorare, non oltrepasserà mai i limiti imposti dal denaro. Efficacia e funzionamento del sistema sono compromessi dalle logorate fondamenta economiche. La svolta avviene grazie all’impacciato Peter Brand (Jonah Hill), neolaureato in economia, assunto coraggiosamente da Billy Beane come assistente personale: il general manager viene sedotto dalla teoria sabermetrica espostagli dal giovane economista. Secondo la sabermetrica i giocatori vanno selezionati sulla base della loro on base percentage (OBP), percentuale che indica il numero delle volte in cui un atleta riesce a conquistare una base senza l’aiuto di penalità. Analisi statistiche computerizzate consentono di individuare i giocatori con alta OBP, spesso scartati dalle altre squadre a causa di preconcetti o di presunti difetti, definendo così un organico capace di portare come collettivo, e non puntando sulle abilità individuali di pochi costosi campioni, i punti necessari per vincere. Guardando il baseball attraverso la nuova griglia concettuale, Billy Beane e Peter Brand creano un’isola di giocattoli difettosi, il cui prezzo è largamente alla portata degli Oakland Athletics. La nuova strategia gestionale consiste nello spostamento del punto di vista, in modo che lo sguardo vada a cadere su aspetti prima invisibili, la cui messa a fuoco svela insperate prospettive. Non è casuale l’inquadratura di Peter Brand, predicatore dei princìpi innovatori, appisolato su un letto a due piazze e con, al posto dell’abituale crocifisso, un poster di una scultura ritraente Platone: come spiegato da Gilles Deleuze, il filosofo ateniese creò le Idee per districare situazioni concrete nella Grecia del tempo, erano strumenti concettuali atti a selezionare i pretendenti ai diversi ruoli sociali. Senza insistere nella ricerca di forzate analogie, si può affermare che anche Billy Beane e Peter Brand si avvalgono di nuovi oggetti ideali per uscire dalle tangibili difficoltà societarie. Bennett Miller indaga le avversità incontrate, le resistenze politiche di una tradizione radicata, per esempio, fino alle sedie del luogo di lavoro, esibisce le sfaccettature di una mentalità ostile alla novità, come se quest’ultima rappresentasse una sinistra scossa sismica da evitare. La forza di volontà occorrente alla riuscita del cambiamento è testimoniata dalla ricorrente immagine del profilo laminato di Billy Beane, chiuso di sera nella propria automobile, a smaltire la tensione per le prime sconfitte subite dagli Oakland Athletics, fattualità figlie di una strategia mai sperimentata e che, in caso di fallimento, metterebbe in discussione la figura professionale del general manager; eppure il buio non riuscirà a divorarne la linea luminosa del volto e, dopo gli stenti iniziali, la squadra inanellerà venti vittorie consecutive.

Il modo in cui Moneyball affronta il baseball allude sostanzialmente alla questione delle classi dirigenti, al fatto che esse sappiano inventare qualcosa per venire fuori da vicoli apparentemente ciechi, che abbiano l’audacia di osare e sperimentare.
Sempre per restare ancorato all’attualità, Bennett Miller inserisce parallelamente un discorso relativo all’eccessiva speculazione e ai disagi portati da una sconsiderata astrazione: giocatori licenziati e manovrati come fossero masse di numeri, un allenatore (Philip Seymour Hoffman) impotente ed inutile davanti alla gestione statistica della squadra, esigenze umane completamente messe da parte; tutto ciò va a limare facili entusiasmi e previene pericolosi fondamentalismi. Le inquadrature notturne sulle desolate gradinate dello stadio, dove Billy Beane rimane abitualmente a meditare, possono rimandare al teatro greco, la cui vitalità è stata prosciugata, secondo le parole di Friedrich Nietzsche, dalla razionalità socratica. Un implicito avvertimento a non istituire un impero di creazioni concettuali scisso dalla realtà, a non ingabbiare la sfera empirica in un reticolo di trame e dati, a evitare che l’esistente venga svuotato delle proprie energie contraddittorie o dei suoi affascinanti imprevisti, come accaduto con la tragedia greca delle origini.

giovedì 22 marzo 2012

Terraferma. L'imbalsamazione delle alterità culturali


(Pubblicato sul numero 208 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pag. 47-49)

Terraferma, già Leone d’Argento all’ultima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, è stato scelto come candidato italiano per concorrere all’Academy Award for Best Foreign Language Film. Consapevole di poter infastidire la scorrevolezza della lettura, ho riportato la definizione americana perché la semplificazione italiana, Oscar al Miglior Film Straniero, presuppone delle frontiere tra film; e, data l’opera che sto per incontrare, iniziare l’articolo concedendo demarcazioni supplementari a quelle delle lingue poteva essere fuori luogo - niente da fare, non si scappa da dentro o fuori un luogo.
Benché Linosa si sia prestata come set delle riprese, l’ambientazione delle vicende non viene mai nominata, forse per consentire un riferimento generale alla situazione dell’arcipelago delle Pelagie.
Le tre generazioni della famiglia Pucillo sono mezza carcassa di una famiglia estesa: nonno Ernesto, un consumato pescatore dalla barba radicata nei costumi locali; Giulietta, una giovane vedova dilaniata dall’immobilità che il suo paese impone a lei e a Filippo, il figlio ventenne sospeso tra l’eredità peschereccia ed il business del dissidente zio Nino, da tempo indaffarato a pescare turisti.
Il presente e l’orizzonte di Filippo sono nebulosi: da un lato si erge il mito del nonno, della leggendaria imbarcazione e di quel padre eroicamente portato via dal mare; dall’altro i discorsi e la mondanità dello zio squarciano un modo di vita che sembrava non prevedere alternative; e infine, aleggia la dissacrante lucidità della madre che vorrebbe affrancare le loro esistenze dalla staticità del luogo e da quel quotidiano pregno di passato.
In un impeto di veemenza, Giulietta sfregia la propria abitazione strappando la carta da parati, è il grado zero di un nuovo, agognato avvenire: vuole perforare la chiusura della propria realtà, abbandonare le totemiche fotografie incorniciate ed avvicinare la sua famiglia all’Italia continentale, che sente lontana, non solo geograficamente. Il progetto è di affittare la casa nel periodo estivo, usando la barca per portare in gita i turisti, così da racimolare denaro in prospettiva di una fuga dall’isola e dall’isolamento.
Nel corso di una battuta di pesca, Filippo ed Ernesto soccorrono un gruppo di uomini in mare, sono africani, tra i quali una donna incinta, Sara, col figlio: i due naufraghi, invece di essere trasportati fino alla costa e liberati sull’isola insieme ai compagni di sventura, vengono messi al riparo nel garage dove vive provvisoriamente la famiglia Pucillo e dove Sara partorisce una bambina. Lo stesso giorno, però, la Guardia di Finanza sequestra il peschereccio di Ernesto con l’accusa di non aver denunciato il trasporto e lo sbarco di clandestini sull’isola.
Quest’episodio segna lo spartiacque tra la Legge dello Stato e la realtà dell’isola.
Il comportamento dei pescatori segue da sempre un paradigma di valori, tra i quali quello di non lasciare uomini in mare, che adesso risulta ribaltato. La Legge designa come reato, più precisamente come favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ciò che prima era un atto onorevole. Il dualismo tra i valori non scritti e la Legge dello Stato è anche una questione di elementi: la terra - sulla quale l’uomo ha inciso solchi che, col passare dei secoli, sono diventati norme scritte su carta - e l’acqua del mare - che non conosce un’unità di spazio e diritto, e che non ha memoria perché diviene sempre uguale nelle onde che cancellano qualsiasi traccia. I pescatori del luogo percepiscono la violenza della Legge a causa della codificazione universalmente esportabile che impone regole contrastanti con l’ethos scaturito nel loro habitat. Continuare ad agire secondo una tradizione viva, adesso, significa correre il rischio di vedersi sequestrare le imbarcazioni dalle quali dipendono; ma la legge degli isolani è nelle reti che, di volta in volta, vengono gettate in risposta ad eventi ed esigenze: per questa ragione si sentono oltraggiati ed impotenti nell’inflessibile rete di norme calata sull’isola dallo Stato.
Ma chi è l’oggetto che ha generato la disputa? Come si manifesta e, soprattutto, come viene presentato? Questa domanda obbliga ad interrogare la messa in scena, da parte di Emanuele Crialese, degli immigrati africani: come appaiono? Sono tentacoli spasmodici che emergono dagli abissi e che afferrano disperatamente la barca di Filippo, sono file di pacchi sorvegliati al molo e destinati all’iter per il rimpatrio, sono cadaveri recapitati a riva dal mare; ma, nella limitata pluralità delle loro rappresentazioni, essi hanno anche i lineamenti del presepe allestito accomodando Sara e i suoi due figli nel garage.
Questo altro, proveniente da un altrove, viene in-formato in un abuso di discorsi ed immagini che servono unicamente alla gestione. Stan Frankland userebbe la metafora del consumo bulimico, processo consistente nel trangugiare l’altro e vomitarlo in modelli ripetitivi che garantiscano l’immutabilità della sua immagine, così da imbalsamarlo e poterlo amministrare; proprio come fa, non solo mediaticamente, il governo italiano. In questo senso, e in questo film, la regia di Crialese si articola analogamente al meccanismo dello Stato. La creazione delle figure umane approdate sull’isola non apre ad un confronto con la loro cultura. Crialese ne filma le disgrazie, enfatizzando gli aspetti che possono suscitare misericordia; ma, come direbbe Jean-Luc Nancy, questa correttezza morale implica simultaneamente il ricevimento dello straniero e l’annullamento sulla soglia della sua estraneità.
I confini non diventano porosi mediante atti di solidarietà aprioristica: per entrare in interconnesione con l’alterità culturale è necessario esperire l’intrusione, sentendo l’attrito, gli aspetti imbarazzanti e diseguali. Tutto il resto è concessione di un angolo etnico, respingimento a scatola chiusa o camuffamento dello straniero nei nostri abiti.

The Tree of Life. Quando il cinema protegge la condizione umana


(Pubblicato sul numero di 207 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pag. 42-45)
In occasione del Festival di Cannes 2011 Terrence Malick ha presentato la sua ultima fatica, The Tree of Life, aggiudicandosi la Palma d’Oro. Il quinto lungometraggio (in quasi quarant’anni di attività!) del regista statunitense prende forma dall’incontro frammentario di quattro narrazioni, ognuna delle quali è articolata come un organismo autosufficiente, dimensioni che, prese singolarmente, potrebbero vivere di cinema proprio ma che, unendosi, si danno vita in un’esperienza che abbraccia e percuote ogni fibra umana, un’esperienza totale le cui parti fluiscono convergendo in un unico discorso che, oltre ad emergere con lo scorrere delle immagini, viene innaffiato dalla suggestiva colonna sonora (tra gli altri annovera brani di Mahler, Mozart, Bach e Brahms), dalle illuminanti voci fuori campo e dalle associazioni, più o meno evidenti, che intercorrono tra le quattro narrazioni.
Ho indicato i quattro contesti con l’espressione organismi autosufficienti perché, riducendo al minimo le relazioni tra di essi, Malick ha finito quasi per risolverli in se stessi: per fare in modo che essi fungano da organi del film e, di conseguenza, che quest’ultimo germogli come un organismo autosufficiente, è necessario che lo spettatore si sforzi di intuire i nessi mancanti.
Il primo mondo risiede in Texas, negli anni ’50, è il ritratto di una famiglia della middle-class americana, gli O’Brien, indagata seguendo la crescita dei tre figli, passando per il momento della morte prematura di uno di essi, episodio che collega le loro vicende al Libro di Giobbe. Citata all’inizio con la didascalia “quando io ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri?” la scrittura biblica pone l’orizzonte familiare in dialogo con Dio: gli O’Brien, per tentare di comprendere ed accettare la loro tragedia, sono tormentati da continue domande; allo stesso modo affiorano incessanti interrogativi in uno dei loro figli, Jack. Il nucleo familiare si sforza di capire il motivo della disgrazia e, parallelamente, il giovane Jack cerca di ottenere soluzioni ai problemi provocati dal severo e oppressivo padre, un Super Ego col volto di Brad Pitt.
La visuale, ottenuta dalla messa in scena non cronologica di alcuni momenti esplicativi, si insinua nel focolare mettendo a fuoco le dinamiche interne, riconducibili alle figure archetipe dei due genitori. I coniugi O’Brien sono due linee guida che, agli occhi del figlio, risultano opposte e inconciliabili. “Ci sono due vie per affrontare la vita: la via della Natura e la via della Grazia”. La Natura è il padre, che incarna la durezza indispensabile per farsi strada laddove vige la legge del più forte (furbo?), la sopportazione della fatica per cambiare l’ordine delle cose, un padre che è prodotto e promotore di una ferrea tradizione quale garanzia per un roseo avvenire. La Grazia ha la sinuosità della madre, capace di coesistere con la contraddizione, o di superarla, cogliendo la bellezza anche quando sembrerebbe irrintracciabile, in pace con le fattualità nonostante il dramma personale.
Jack, sorta di sineddoche del genere umano, non riesce a stare comodo su un angolo di questo triangolo edipico, un disagio confermato nell’eco delle sue parole: “padre, madre, voi lottate sempre dentro di me, e lotterete sempre”. Natura e Grazia popolano i sensi e la mente del ragazzo, anche al di fuori della propria casa, presentandosi come due forze, o categorie, del Pianeta.
Malick risolve questo dualismo intervallando la realtà familiare con sequenze di scenari svuotati della presenza umana: la seconda dimensione è l’universo del non-umano, del pre-umano, dell’oltre-umano, di quel che si vede da un punto di vista alternativo a quello degli uomini. Big Bang, galassie in formazione, eruzioni solari, albe spaziali, sostanze che si mescolano e molecole che si separano, lave incandescenti e sciabordii d’acqua, scenari primordiali e batteri. Questa narrazione cosmica avviene indifferentemente dall’uomo e dai suoi parametri, procede suscitando un senso di impotenza, rientrando pienamente nella categoria della Natura. Eppure queste visioni, filtrate e tenute a distanza dallo schermo, non possono inquietare ma, attraverso le scelte registiche, infondono odori e sapori, si prestano al tatto, facendo in modo che questi fenomeni, non esperibili, vengano percepiti come oggetti irradianti stimoli che allietano i sensi dello spettatore. Questo è il sodalizio dei due archetipi, deterritorializzati e riterritorializzati, un’unione che si manifesta con le immagini della Grazia nella Natura, della Madre nel Padre, o viceversa. Quasi che Malick voglia aprire una terza via, quella del cinema, per proteggere la condizione umana. È forse questo l’albero della vita? Quell’albero che espone, sovrasta e ripara, proprio come lo schermo che svela e protegge.
Il terzo ambiente, quello della memoria e della meditazione sul passato, mostra Jack ormai adulto (interpretato da Sean Penn): l’uomo è assalito dai ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, raffigurati nella prima dimensione; questo suo flottare con la mente è rappresentato in frammenti che, alternandosi a quelli delle prime due narrazioni, ritmano gran parte delle pellicola. Silenzioso, il viandante si muove tra architetture moderne e, forse metaforicamente, calca il suolo dei diversi continenti; elemento diegetico del film, non può aver assistito alle visioni dell’unione Natura-Grazia ma, nonostante ciò, pare incamminarsi verso una concezione del proprio passato paragonabile a quella che un ipotetico Dio avrebbe nei confronti della propria creazione, giungendo ad ammirare la sua esistenza con sguardo epocale, senza dimenticarne le inevitabili tensioni.
Terrence Malick fa varcare una porta al suo personaggio, si sofferma su un ponte e su un cancello, esibisce l’immagine del cielo riflesso da un grattacielo, icona della sintesi Natura-Grazia: simboli che conducono nel regno finale, luogo desiderato ma sconosciuto, Paradiso raccontato nel quale gli umani, se solo potessero essere spettatori di loro stessi e di altro da loro stessi, troverebbero una meritata dimora.