giovedì 22 marzo 2012

Terraferma. L'imbalsamazione delle alterità culturali


(Pubblicato sul numero 208 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pag. 47-49)

Terraferma, già Leone d’Argento all’ultima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, è stato scelto come candidato italiano per concorrere all’Academy Award for Best Foreign Language Film. Consapevole di poter infastidire la scorrevolezza della lettura, ho riportato la definizione americana perché la semplificazione italiana, Oscar al Miglior Film Straniero, presuppone delle frontiere tra film; e, data l’opera che sto per incontrare, iniziare l’articolo concedendo demarcazioni supplementari a quelle delle lingue poteva essere fuori luogo - niente da fare, non si scappa da dentro o fuori un luogo.
Benché Linosa si sia prestata come set delle riprese, l’ambientazione delle vicende non viene mai nominata, forse per consentire un riferimento generale alla situazione dell’arcipelago delle Pelagie.
Le tre generazioni della famiglia Pucillo sono mezza carcassa di una famiglia estesa: nonno Ernesto, un consumato pescatore dalla barba radicata nei costumi locali; Giulietta, una giovane vedova dilaniata dall’immobilità che il suo paese impone a lei e a Filippo, il figlio ventenne sospeso tra l’eredità peschereccia ed il business del dissidente zio Nino, da tempo indaffarato a pescare turisti.
Il presente e l’orizzonte di Filippo sono nebulosi: da un lato si erge il mito del nonno, della leggendaria imbarcazione e di quel padre eroicamente portato via dal mare; dall’altro i discorsi e la mondanità dello zio squarciano un modo di vita che sembrava non prevedere alternative; e infine, aleggia la dissacrante lucidità della madre che vorrebbe affrancare le loro esistenze dalla staticità del luogo e da quel quotidiano pregno di passato.
In un impeto di veemenza, Giulietta sfregia la propria abitazione strappando la carta da parati, è il grado zero di un nuovo, agognato avvenire: vuole perforare la chiusura della propria realtà, abbandonare le totemiche fotografie incorniciate ed avvicinare la sua famiglia all’Italia continentale, che sente lontana, non solo geograficamente. Il progetto è di affittare la casa nel periodo estivo, usando la barca per portare in gita i turisti, così da racimolare denaro in prospettiva di una fuga dall’isola e dall’isolamento.
Nel corso di una battuta di pesca, Filippo ed Ernesto soccorrono un gruppo di uomini in mare, sono africani, tra i quali una donna incinta, Sara, col figlio: i due naufraghi, invece di essere trasportati fino alla costa e liberati sull’isola insieme ai compagni di sventura, vengono messi al riparo nel garage dove vive provvisoriamente la famiglia Pucillo e dove Sara partorisce una bambina. Lo stesso giorno, però, la Guardia di Finanza sequestra il peschereccio di Ernesto con l’accusa di non aver denunciato il trasporto e lo sbarco di clandestini sull’isola.
Quest’episodio segna lo spartiacque tra la Legge dello Stato e la realtà dell’isola.
Il comportamento dei pescatori segue da sempre un paradigma di valori, tra i quali quello di non lasciare uomini in mare, che adesso risulta ribaltato. La Legge designa come reato, più precisamente come favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ciò che prima era un atto onorevole. Il dualismo tra i valori non scritti e la Legge dello Stato è anche una questione di elementi: la terra - sulla quale l’uomo ha inciso solchi che, col passare dei secoli, sono diventati norme scritte su carta - e l’acqua del mare - che non conosce un’unità di spazio e diritto, e che non ha memoria perché diviene sempre uguale nelle onde che cancellano qualsiasi traccia. I pescatori del luogo percepiscono la violenza della Legge a causa della codificazione universalmente esportabile che impone regole contrastanti con l’ethos scaturito nel loro habitat. Continuare ad agire secondo una tradizione viva, adesso, significa correre il rischio di vedersi sequestrare le imbarcazioni dalle quali dipendono; ma la legge degli isolani è nelle reti che, di volta in volta, vengono gettate in risposta ad eventi ed esigenze: per questa ragione si sentono oltraggiati ed impotenti nell’inflessibile rete di norme calata sull’isola dallo Stato.
Ma chi è l’oggetto che ha generato la disputa? Come si manifesta e, soprattutto, come viene presentato? Questa domanda obbliga ad interrogare la messa in scena, da parte di Emanuele Crialese, degli immigrati africani: come appaiono? Sono tentacoli spasmodici che emergono dagli abissi e che afferrano disperatamente la barca di Filippo, sono file di pacchi sorvegliati al molo e destinati all’iter per il rimpatrio, sono cadaveri recapitati a riva dal mare; ma, nella limitata pluralità delle loro rappresentazioni, essi hanno anche i lineamenti del presepe allestito accomodando Sara e i suoi due figli nel garage.
Questo altro, proveniente da un altrove, viene in-formato in un abuso di discorsi ed immagini che servono unicamente alla gestione. Stan Frankland userebbe la metafora del consumo bulimico, processo consistente nel trangugiare l’altro e vomitarlo in modelli ripetitivi che garantiscano l’immutabilità della sua immagine, così da imbalsamarlo e poterlo amministrare; proprio come fa, non solo mediaticamente, il governo italiano. In questo senso, e in questo film, la regia di Crialese si articola analogamente al meccanismo dello Stato. La creazione delle figure umane approdate sull’isola non apre ad un confronto con la loro cultura. Crialese ne filma le disgrazie, enfatizzando gli aspetti che possono suscitare misericordia; ma, come direbbe Jean-Luc Nancy, questa correttezza morale implica simultaneamente il ricevimento dello straniero e l’annullamento sulla soglia della sua estraneità.
I confini non diventano porosi mediante atti di solidarietà aprioristica: per entrare in interconnesione con l’alterità culturale è necessario esperire l’intrusione, sentendo l’attrito, gli aspetti imbarazzanti e diseguali. Tutto il resto è concessione di un angolo etnico, respingimento a scatola chiusa o camuffamento dello straniero nei nostri abiti.

The Tree of Life. Quando il cinema protegge la condizione umana


(Pubblicato sul numero di 207 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pag. 42-45)
In occasione del Festival di Cannes 2011 Terrence Malick ha presentato la sua ultima fatica, The Tree of Life, aggiudicandosi la Palma d’Oro. Il quinto lungometraggio (in quasi quarant’anni di attività!) del regista statunitense prende forma dall’incontro frammentario di quattro narrazioni, ognuna delle quali è articolata come un organismo autosufficiente, dimensioni che, prese singolarmente, potrebbero vivere di cinema proprio ma che, unendosi, si danno vita in un’esperienza che abbraccia e percuote ogni fibra umana, un’esperienza totale le cui parti fluiscono convergendo in un unico discorso che, oltre ad emergere con lo scorrere delle immagini, viene innaffiato dalla suggestiva colonna sonora (tra gli altri annovera brani di Mahler, Mozart, Bach e Brahms), dalle illuminanti voci fuori campo e dalle associazioni, più o meno evidenti, che intercorrono tra le quattro narrazioni.
Ho indicato i quattro contesti con l’espressione organismi autosufficienti perché, riducendo al minimo le relazioni tra di essi, Malick ha finito quasi per risolverli in se stessi: per fare in modo che essi fungano da organi del film e, di conseguenza, che quest’ultimo germogli come un organismo autosufficiente, è necessario che lo spettatore si sforzi di intuire i nessi mancanti.
Il primo mondo risiede in Texas, negli anni ’50, è il ritratto di una famiglia della middle-class americana, gli O’Brien, indagata seguendo la crescita dei tre figli, passando per il momento della morte prematura di uno di essi, episodio che collega le loro vicende al Libro di Giobbe. Citata all’inizio con la didascalia “quando io ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri?” la scrittura biblica pone l’orizzonte familiare in dialogo con Dio: gli O’Brien, per tentare di comprendere ed accettare la loro tragedia, sono tormentati da continue domande; allo stesso modo affiorano incessanti interrogativi in uno dei loro figli, Jack. Il nucleo familiare si sforza di capire il motivo della disgrazia e, parallelamente, il giovane Jack cerca di ottenere soluzioni ai problemi provocati dal severo e oppressivo padre, un Super Ego col volto di Brad Pitt.
La visuale, ottenuta dalla messa in scena non cronologica di alcuni momenti esplicativi, si insinua nel focolare mettendo a fuoco le dinamiche interne, riconducibili alle figure archetipe dei due genitori. I coniugi O’Brien sono due linee guida che, agli occhi del figlio, risultano opposte e inconciliabili. “Ci sono due vie per affrontare la vita: la via della Natura e la via della Grazia”. La Natura è il padre, che incarna la durezza indispensabile per farsi strada laddove vige la legge del più forte (furbo?), la sopportazione della fatica per cambiare l’ordine delle cose, un padre che è prodotto e promotore di una ferrea tradizione quale garanzia per un roseo avvenire. La Grazia ha la sinuosità della madre, capace di coesistere con la contraddizione, o di superarla, cogliendo la bellezza anche quando sembrerebbe irrintracciabile, in pace con le fattualità nonostante il dramma personale.
Jack, sorta di sineddoche del genere umano, non riesce a stare comodo su un angolo di questo triangolo edipico, un disagio confermato nell’eco delle sue parole: “padre, madre, voi lottate sempre dentro di me, e lotterete sempre”. Natura e Grazia popolano i sensi e la mente del ragazzo, anche al di fuori della propria casa, presentandosi come due forze, o categorie, del Pianeta.
Malick risolve questo dualismo intervallando la realtà familiare con sequenze di scenari svuotati della presenza umana: la seconda dimensione è l’universo del non-umano, del pre-umano, dell’oltre-umano, di quel che si vede da un punto di vista alternativo a quello degli uomini. Big Bang, galassie in formazione, eruzioni solari, albe spaziali, sostanze che si mescolano e molecole che si separano, lave incandescenti e sciabordii d’acqua, scenari primordiali e batteri. Questa narrazione cosmica avviene indifferentemente dall’uomo e dai suoi parametri, procede suscitando un senso di impotenza, rientrando pienamente nella categoria della Natura. Eppure queste visioni, filtrate e tenute a distanza dallo schermo, non possono inquietare ma, attraverso le scelte registiche, infondono odori e sapori, si prestano al tatto, facendo in modo che questi fenomeni, non esperibili, vengano percepiti come oggetti irradianti stimoli che allietano i sensi dello spettatore. Questo è il sodalizio dei due archetipi, deterritorializzati e riterritorializzati, un’unione che si manifesta con le immagini della Grazia nella Natura, della Madre nel Padre, o viceversa. Quasi che Malick voglia aprire una terza via, quella del cinema, per proteggere la condizione umana. È forse questo l’albero della vita? Quell’albero che espone, sovrasta e ripara, proprio come lo schermo che svela e protegge.
Il terzo ambiente, quello della memoria e della meditazione sul passato, mostra Jack ormai adulto (interpretato da Sean Penn): l’uomo è assalito dai ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, raffigurati nella prima dimensione; questo suo flottare con la mente è rappresentato in frammenti che, alternandosi a quelli delle prime due narrazioni, ritmano gran parte delle pellicola. Silenzioso, il viandante si muove tra architetture moderne e, forse metaforicamente, calca il suolo dei diversi continenti; elemento diegetico del film, non può aver assistito alle visioni dell’unione Natura-Grazia ma, nonostante ciò, pare incamminarsi verso una concezione del proprio passato paragonabile a quella che un ipotetico Dio avrebbe nei confronti della propria creazione, giungendo ad ammirare la sua esistenza con sguardo epocale, senza dimenticarne le inevitabili tensioni.
Terrence Malick fa varcare una porta al suo personaggio, si sofferma su un ponte e su un cancello, esibisce l’immagine del cielo riflesso da un grattacielo, icona della sintesi Natura-Grazia: simboli che conducono nel regno finale, luogo desiderato ma sconosciuto, Paradiso raccontato nel quale gli umani, se solo potessero essere spettatori di loro stessi e di altro da loro stessi, troverebbero una meritata dimora.