giovedì 7 novembre 2013

Only God forgives. Poteri secondo Refn

 [Pubblicato su D’ARS year 53/nr 215/autumn 2013, pp. 34-37.]

Ambientato in una Bangkok allucinata, tra palestre e locali notturni, Only God forgives di Nicolas Winding Refn unisce aspetti delle due precedenti opere del regista danese: le atmosfere ansiogene e i luoghi contemporanei di Drive (2011), qui cromati di diverse tonalità di rosso, si distillano secondo il ritmo e i tempi meditativi del dionisiaco Valhalla Rising (2009).
Considerando che in Refn i formalismi sono solo apparenti in quanto divengono pura sostanza dello sviluppo contenutistico e che le scelte stilistico-registiche sono sempre incisive a livello discorsivo, l’argomento della vendetta è il pretesto narrativo di un film che, non limitandosi a essere un semplice revenge movie, si apre su questioni altre
   
Nella capitale thailandese i fratelli Julian (Ryan Gosling) e Billy (Tom Burke) gestiscono una lussuosa palestra di pugilato come copertura dei loro traffici illeciti. Una sera Billy uccide una delle prostitute che abitualmente frequenta, una minorenne: le autorità locali si rivolgono a Chang (Vithaya Pansringarm), poliziotto in pensione, il quale vendica immediatamente la ragazza rifacendosi sull’assassino. In seguito all’episodio arriva in città, direttamente dagli Stati Uniti, Crystal (Kristin Scott Thomas), madre dei due fratelli nonché boss del clan, che domanda all’unico figlio rimasto – Julian – di vendicare il primogenito.

Mentre Confessions di Tetsuya Nakashima (produzione giapponese uscita nelle sale italiane poco prima di Only God forgives) potrebbe essere una sorta di trasposizione di alcune teorizzazioni di René Girard – difatti viene mostrata l’escalation della vendetta, dovuta all’uso sbagliato del pharmakos/capro espiatorio, una violenza senza misura che genera nuovi conflitti interpersonali e scioglie qualsiasi vincolo sociale – l’ultimo film di Refn si racconta in modo a-didascalico, a tratti (e paradossalmente) extradiegetico e divinizzando la non naturalistica finzione cinematografica.

L’opera si caratterizza per il ruolo della luce e l’uso della profondità di campo: la seconda permette di sfondare il piano dello schermo, andando continuamente a cercare qualcosa oltre i limiti spaziali e modificando di volta in volta i rapporti tra figure e campo. La luce filtrata dalle finestre, dall’altro, crea pattern luminosi tessuti secondo geometrie orientali, arabeschi immateriali che sovraimprimono, accumulano e prolungano la materia inanimata, facendola al tempo stesso vibrare e respirare. Il potere di raggiungere l’invisibile – profondità di campo – e di soffiare vita nella materia – uso delle luci – porta a inglobare il ruolo dei mezzi cinematografici nella diegesi, costringendo a una lettura della trama che consideri anche il ruolo demiurgico della finzione (o, se si preferisce, la natura artificiale di Dio). All’identità semidivina del mezzo cinematografico si contrappone la legge secolare personificata dal poliziotto in pensione: silenzioso, avanza contro chi viola la giustizia e, con la sua katana, punisce mutilando braccia e mani, danneggiando orecchie e occhi – non passa inosservata la citazione di Un chien andalou di Luis Buñuel. Negando ripetutamente l’organicità dei corpi senzienti, Chang esercita però un potere povero nelle sue risorse, un potere anti-energia e capace solo di dire no. Infatti, che sia la brutale deturpazione di un corpo o che sia una forma di violenza sublimata, l’azione di forza di un uomo nei confronti di un altro uomo è un gesto coercitivo che si protrae poco oltre il dolore di un istante e che, al di là della propria singolarità, lascia poche tracce.

In opposizione a Chang il regista pone la figura di Crystal, madre edipica e forse incestuosa, la quale non rappresenta solamente una donna ma inscena la Famiglia, la configurazione di un destino, il substrato storico-empirico che in-forma e in-canala un’esistenza. Crystal, capo dell’organizzazione criminale, è stata per i propri figli il luogo di iniziazione a un certo tipo di vita – delinquenziale – e, adesso, continua a produrre azioni in Julian, persuadendolo a uccidere il carnefice del fratello: la Madre, insomma, raffigura quel concatenamento di fattori che avvolgono e indirizzano la vita del singolo individuo prima ancora che questi sia stato concepito. Rispetto allo sterile e limitato potere di Chang, quello di Crystal è produttivo e formativo proprio come la finzione/demiurgo, di cui si è detto in precedenza.

Julian, co-protagonista e antieroe di Only God forgives, è oppresso dall’invisibile struttura – indagata con la profondità di campo e che ha le sembianze di Crystal – in cui è cresciuto e che continua a portarsi addosso, nonostante si sia trasferito in Tailandia. L’uomo, inoltre, è afflitto dal prospettarsi del duello fisico con l’invincibile Chang, uno scontro ormai imminente e inevitabile.

Tra i due poteri, Julian pare individuare il meno doloroso in quello umano, corporale, la forza esercitata da Chang; decide infatti di affrontare un pari natura sapendo di uscirne sconfitto e, quasi docilmente, si lascia amputare le mani dall’ex poliziotto, come se questa sanguinaria espiazione fosse comunque meno dolorosa del già-da-sempre-indossato abito esistenziale personificato dalla Madre. La scena-chiave del film, non a caso, vede Julian infilare un braccio nella ferita di Crystal, la quale era stata trafitta nel ventre dalla lama di Chang, simbolizzando così la morte della sua coercitiva matrice di vita e, soprattutto, tratteggiando la propria rinascita di uomo, ricominciando ancora dalla pancia della mamma.