martedì 11 ottobre 2011

Poetry. La donna diventata poesia


(Pubblicato sul numero 206 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pag. 50-52 )


Il Primo di Aprile è uscito nella sale italiane Poetry, quinto lungometraggio del regista sudcoreano Lee Chang-dong, vincitore del premio per la miglior sceneggiatura al Festival di Cannes 2010, al quale si sono successivamente aggiunti gli Oscar asiatici come miglior regia e sempre come miglior sceneggiatura.

Tutto il film gira, o meglio, è girato attorno a Mija, nonna sessantaseienne ancora impegnata nel ruolo di madre con Wook, il nipote lasciatole dalla figlia.
Mija, che vive in modeste condizioni economiche in una città di provincia, lavora come badante part-time per un anziano disabile e, per dare un po’ di freschezza alla propria quotidianità, decide di iscriversi ad un corso di poesia.

La visione di Poetry può risultare inizialmente faticosa perché
consiste in un cammino che porterà all’identificazione con i modi di pensare, agire e reagire della donna; per introdurre lo spettatore in questa dimensione umana Lee Chang-dong filma la ripetitività delle giornate di Mija, evitando di semplificarne la personalità mediante il comodo abuso di fatti straordinari. Un ritratto in divenire che schizza morbidamente l’inizio di una metamorfosi, coincidente col primo stadio dell’Alzheimer, reso non tanto come un morbo o come l’avvio di un processo degenerativo, quanto come un modo diverso di sentire la realtà e di rielaborarla. L’aura di diversità della protagonista sarebbe intuibile anche assistendo alla
proiezione della pellicola senza il supporto audio: i suoi vestiti sono campi di fiori e la staccano dal contesto meccanico ed
emotivamente pietrificato; l’intensità dello sguardo e la genuinità dei gesti che compie la rimbalzano fuori dalla razionalità esasperata e dall’individualismo circostante.
Quando Mija e Wook sono presenti all’interno della stessa inquadratura i tratti anomali della nonna risultano accentuati: il ragazzo appare sempre ipnotizzato dal televisore o dal pasto che sta consumando, figurando come entità priva di volontà che reagisce meccanicamente agli stimoli esterni o alla fame; la fiabesca signora, invece, osserva ciò che le si muove attorno con durata ed interesse rari per i ritmi contemporanei, con viva e
profonda partecipazione.

Davanti al suicidio di una ragazzina dovuto alle violenze subite da parte di un gruppo di coetanei, tra i quali il nipote di Mija, i genitori degli alunni coinvolti tramano una manovra per evitare che
venga macchiata la reputazione dei loro figli: pagare una cospicua somma di denaro alla madre della vittima. Oscillando tra la brama di aiutare Wook ed il dolore provato, la nonna partecipa ad alcuni incontri con gli altri adulti; in uno di questi si manifesta l’insofferenza della donna alla situazione, al punto da essere costretta ad abbandonare la stanza per poi ricomparire al di là della finestra, fungendo da sfondo della riunione, rapita dal colore dei fiori.

Penso a quando Rainer Maria Rilke, in uno dei sonetti a Orfeo, scriveva “lo spettro dell’effimero attraversa come fosse un
fumo chi in sé l’accoglie ingenuamente”; in rapporto a questi versi, la capacità di Mija di accogliere il mondo in tutta la sua portata risiede proprio nell’essere ingenua rispetto ai costumi ed allo spirito calcolatore delle altre persone.
Un episodio che esprime chiaramente la distanza che c’è tra la protagonista e tutto ciò che è preconfezionato e standardizzato è quello in cui Mija, camminando verso l’abitazione della madre della
ragazza deceduta, si ferma ad ammirare la texture naturale creata dall’intreccio delle susine mature cadute al suolo con le ombre di quelle ancora appese ai rami: dopo questa visione la donna raggiunge
la casa della madre e, invece di parlarle - come concordato con gli altri genitori - si limita a regalarle alcune susine, perdendo
di vista qualsiasi interesse personale. Una libertà estrema che emerge anche quando decide di concedersi all’anziano invalido, il quale le aveva chiesto di sentirsi uomo ancora una volta.

Ci si può domandare per quale ragione Lee Chang-dong abbia scelto Poetry come titolo del film. Costruendo magnificamente il personaggio principale il regista ha teorizzato la poesia, prima che
come pratica di scrittura, come un atteggiamento conoscitivo, preluso da un’epoché privata della metodicità husserliana, un modo di vivere fuori dall’ordinario, combattendo quell’automatizzazione
che conduce a non vedere gli oggetti e, come affermava il formalista
russo Viktor Borisovic Sklovskij, induce a mangiare la realtà trasformandola in un niente.

In una delle scene meglio riuscite Mija è seduta in aperta campagna, con il taccuino aperto sulle ginocchia, attendendo l’ispirazione per scrivere: l’inquadratura stringe sulla pagina bianca e, dopo pochi
secondi, questa viene scritta a macchie da alcune gocce d’acqua che anticipano l’imminente pioggia, come se la distanza tra percezione e rielaborazione, in vista della composizione, fosse stata annullata.
Lee Chang-dong sembra concepire la poesia come un vestito che non si può mai togliere, un modo di essere, non come l’immagine mondana emersa durante la rappresentazione cinematografica dei simposi e delle serate di lettura in pubblico, circostanze caricate di
significati ambigui.

Il motivo per cui Mija fatica nella composizione di un testo è che, prima di agire graficamente, deve riuscire ad indossare quell’abito, a cucirselo addosso.

Oltre alla capacità di avere uno sguardo svincolato da ogni preconcetto, il finale del film individua un ulteriore prerequisito
alla pratica di scrittura: la volontà di unirsi a ciò che si osserva, una fusione tra soggetto ed oggetto che, nel caso specifico, si compie anche nella tragicità del destino. Infatti Poetry si chiude con un foglio lasciato sulla cattedra dell’aula del
corso di poesia, un brano incentrato sulla vicenda della ragazzina morta suicida. Mija però non c’è più, la metamorfosi è terminata, lei è scomparsa come il soggetto che ha rielaborato, e che è diventata, prima di esplodere depositando parole da leggere, e da cantare, per tagliare le abitudini e le sovrastrutture che rendono
ciechi e sordi davanti alla vita.

domenica 19 giugno 2011

Hereafter. Rapporti umani scriventi

(Pubblicato sul numero 205 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pag. 32-34 )


Clint Eastwood ha raggiunto il traguardo degli ottant’anni e, un po’ macabramente, si dice che con Hereafter abbia iniziato, come uomo e come cineasta, a riflettere riguardo alla possibilità di esistenza dell’aldilà. Che il suo ultimo lungometraggio affronti il post-morte è fuori discussione, e mai mi permetterei di negare la partecipazione di questo tema alla complessità dell’opera; però voglio osare, interrogando quest’ultima, e tentare di capire se essa esprima anche altre questioni.

La trama è imbastita da tre vicende umane: Marie, affermata giornalista francese in vacanza in Indonesia, viene travolta da uno tsunami, restando per un breve lasso temporale sulla soglia tra la vita e la morte; Marcus, dodicenne londinese, perde il fratello gemello a causa di un incidente stradale; George, operaio di San Francisco, dopo aver subito una delicata operazione al cervello riesce a comunicare con gli affetti perduti della gente. Londra è geograficamente il luogo dove si incontrano Marie, Marcus e George, ma il motivo che avvicina i tre protagonisti, a loro insaputa, si palesa ben prima del loro raduno fisico: la volontà del fanciullo e la fattualità, per la giornalista e per l’operaio, di entrare in contatto con esseri umani biologicamente morti.

Marcus è legato in modo viscerale al gemello dipartito e, sperando di riuscire a ricontattarlo, inizia una ricerca che lo porterà al sensitivo George, un uomo che toccando le mani delle persone
riesce a sentire i loro cari mancati, facendo da tramite. Marie, dopo l’esperienza di quasi-morte, viene occasionalmente sorpresa da alcune visioni ritraenti un luogo etereo abitato dalle vittime
dello tsunami. Proseguendo su questa linea di interpretazione si resterebbe all’interno dei meri fatti rappresentati e non si potrebbe aggiungere granché al susseguirsi di episodi: la pellicola come discorso sull’aldilà non si distingue per particolare originalità e non aiuta a dedurre conclusioni rilevanti, anche per i limiti posti dalla materia.

Può essere interessante far notare che George vive la propria capacità di rapportarsi ai defunti come una condanna, non come un dono; e, partendo dalla definizione di Derrida secondo la
quale il dono è se non si manifesta e se non viene riconosciuto come tale né dal donatore né dal donatario (in quanto la manifestazione ed il riconoscimento lo annullerebbero facendolo rientrare
nello scambio e nel circolo economico) si potrebbe affermare, senza pretendere di sussumere questo caso empirico alla pura figura di pensiero del filosofo francese, che l’abilità di George è un passo verso quel dono impossibile, proprio perché egli la valuta come una condanna che gli reca dolore.

Guardando ad Hereafter come ad un testo atipico, costituito da invisibili grovigli transpersonali, il leitmotiv prende le sembianze della scrittura in senso lato, intesa come ciò che consente la permanenza di senso in assenza di soggetto, un senso incarnato che anima un campo trascendentale, scrittura come garante della presenza della persona in assenza di essa.
Tutto ciò, per esempio, può essere visto in Marcus che, prescindendo dall’inesistenza dell’organismo del gemello, ne conserva il senso in sé: l’anima resta incarnata nel corpo di Marcus e, sebbene le manchi il portatore originale, rimane viva, è presenza di un’assenza. Questa dinamica avviene anche in altri personaggi secondari che si rivolgono a George nella speranza di riavere i loro cari. In questo processo l’operaio George è un amplificatore, ha il ruolo di sollecitare e dare voce ai sentimenti profondi dei suoi clienti, favorendo l’ascolto ed il dialogo con le alterità in essi raccolte.

Dal punto di vista concettuale la funzione di George è meno importante di quanto lo sia dal punto di vista narrativo perché, ritornando allo stesso esempio, quel che egli riporta a Marcus era già situato nel ragazzo: è un angelo che vive in lui, traccia di una relazione reale. George si limita ad ascoltare qualcuno, o qualcosa, che già esiste: lo spettatore ne è a conoscenza dato che questo qualcuno, o qualcosa, aveva dato prova di sé prima dell’incontro col sensitivo, impedendo che il
dodicenne incappasse in un incidente in metropolitana.

La personalità dell’individuo non viene forgiata solamente dalle relazioni affettive più intense, come quelle tra due gemelli, ma anche da momenti drammatici e straordinari – per esempio la catastrofe che ha colpito Marie – eventi che lasciano negli occhi del singolo immagini costituenti,
elementi che lo abiteranno per sempre, segni impressi nella memoria con la stessa forza con cui l’oggetto contundente colpisce la nuca della giornalista durante la tragica e spettacolare scena della catastrofe asiatica. Azzardando si può trovare nell’ultima creazione di Clint Eastwood un’impronta di decostruzione della coscienza con simultanea risalita di alterità affettive e traumatiche, indizi di un sé che poggia continuamente su altro da sé.

Il film non ha una struttura teoretica in grado di reggere sistematicamente la tesi che ho sostenuto, anche perché sarebbe un’ipotesi lontana dal cinema di Clint Eastwood: resta però la sensazione, durata per tutta la proiezione, che sia rintracciabile la volontà di rappresentare alcune relazioni umane come se fossero una penna che, depositando il proprio spirito da un corpo nell’altro, si impegna ad assicurare ad esso una forma di mondanità, servendosi della corporeità, non di inchiostro e fogli di carta.

La scrittura ritorna anche con la pubblicazione del libro Hereafter, scritto da Marie per testimoniare e documentare le proprie visioni: il fenomeno del ritorno nitido di queste immagini viene inciso graficamente, stampato su carta in modo che il senso eccezionale possa sopravvivere
alla donna, raccontandosi materialmente, restando attivo e potendosi riprodurre nella mente vivificante di ogni nuovo lettore.

domenica 1 maggio 2011

Loong Boonmee raleuk chat. Un tentativo di vivere la morte


(Pubblicato sul numero 204 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pag. 24-27)


Da sempre l'uomo si è scervellato per esorcizzare la morte e per trovare un antidoto alla sua angosciosa minacciosità,i tentativi sono stati innumerevoli e di ogni genere. Nonostante questi sforzi è rimasta una forma di paura nei confronti di essa o, dato che la paura richiama troppo l’attenzione sull’oggetto, è più corretto definirla un’angoscia, una preparazione di stati d’animo nell’attesa di qualcosa che sfugge. In effetti tutto ciò rimane un mistero, in quanto si muore davanti all’altro e mai davanti a se stessi e ciò comporta la possibilità, resa possibile dal linguaggio, di sapere la morte ma l’impossibilità di viverla, proprio perché il suo avvento mette fine alla vita.

Con Loong Boonmee raleuk chat (uscito in Italia con il titolo Lo
zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti), film vincitore della
Palma d’oro al Festival di Cannes 2010, il regista tailandese
Apichatpong Weerasethakul sfida la distanza tra vita e morte, la
stessa che impedisce di esperire quest’ultima.
La sfida cinematografica consiste nella simulazione del continuo incontro tra i due opposti, nella loro simultanea presenza. Ombre e fantasmi riacquistano corporeità, si accomodano tra gli organismi palpitanti, fungendo quasi da consolazione ed introduzione al trapasso. Luce ed oscurità conversano all’interno delle inquadrature, rafforzando visivamente lo svolgimento dell’opera come spazio e tempo d’intersezione, punti di vista collocati nel buio, in uno spazio chiuso, che si aprono verso la luce, e viceversa.

Nel villaggio di Nabua, nel nordest della Tailandia, lo zio Boonmee trascorre i suoi ultimi giorni convivendo con un’insufficienza renale cronica che ne causerà presto lo spegnimento. La malattia lo costringe a realizzare silenziosamente l’avvicinarsi della fine, è un sentimento intimo ed esclusivo perché, benché le persone che lo circondano possano avvicinarsi, quest’esperienza non potrà mai essere del tutto condivisa. Gli sviluppi del male su Boonmee rimandano a Solaris di Tarkovskij: come quel pianeta, anche la consapevolezza della resa sembra essere un motore che vivifica e materializza gli affetti ed i ricordi primari, ma a differenza del film sovietico non si delineano connotati di morbosità ed ossessione. Questo potenziamento ha l’effetto di resuscitare due persone fortemente presenti in Boonmee, la moglie deceduta ed il figlio, fuggito da tempo. Delicatamente viene rappresentato il rafforzamento di una sfera marginale della società performativa e l’intensità del momento è tale da permettere anche alle persone sane, emotivamente coinvolte ma estranee all’evento in
sé, di percepire i soggetti riesumati, come se il raccoglimento interiore dell’uomo riuscisse, mediante i suoi sentimenti più
cari, ad irradiare i sensi di chi gli sta vicino.

La riunione di Boonmee con la moglie ed il figlio raffigura una circostanza di dialogo tra la vita e la morte intesa sia in senso
biologico (moglie) che come scomparsa (figlio). Boonsong, il figlio di Boonmee, amplia l’orizzonte di Loong Boonmee raleuk chat: il ragazzo riappare al padre confessando di aver abbandonato la civiltà
attratto da una scimmia, con la quale si è accoppiato, finendo per assumere delle sembianze poco umane a causa della pelliccia animale cresciutagli ovunque.

Un principessa innamorata del suo servo, un bisonte tornato allo stato brado ed alcuni filmati e fotografie di soldati confondono lo spettatore, interrompendo la narrazione coerente degli ultimi giorni
del protagonista: un po’ per intuizione ed un po’ rapportando queste immagini al titolo del film, si capisce che esse riguardano i corpi abitati in passato dall’anima di Boonmee, sono le sue vite precedenti sintetizzate in brevi episodi. Ecco allora che la morte viene concepita come una fase della vita nel suo complesso, vita dall’andamento ciclico che assorbe la fine del singolo rielaborandola in nuove nascite. Emblematica è la grotta, uterina e dalle materne forme rotonde, dove Boonmee si reca per attendere il momento finale; è la Terra dalla fisionomia materna, luogo di natività e di ritorno allo spazio prenatale.

Il personaggio di Boonsong e la scena, allo stesso tempo realistica e poetica, dell’amplesso tra la principessa ed un pescegatto parlante propongono un altro aspetto tematico del film: la sbavatura della linea di demarcazione tra l’umano e le altre forme di vita. La sequenza del viaggio in automobile per dirigersi alla casa di campagna tratteggia l’idea del ritorno dell’umano
nel ventre della Natura: la macchina da presa è accortamente fissata
sulla vettura evitando di inquadrarla, creando così uno scenario illusorio nel quale il paesaggio si muove verso il punto di vista, scorrendone ai lati, divorandolo ed inglobandolo.

Le fotografie di soldati e i filmati trasmessi da un televisore introducono anche il fenomeno della guerra, che, insieme alla malattia, è la realtà nella quale gli uomini, in termini di centimetri e di secondi, si trovano a minor distanza dalla morte.

Con la sua ultima pellicola Apichatpong Weerasethakul si rapporta poliedricamente alla venuta del trapasso: da un lato l’evento esalta il vissuto personale dell’Io, con la risalita degli affetti più importanti del singolo e con l’attaccamento della persona alla propria conservazione; dall’altro l’esistenza dell’individuo viene
superata in direzione di una riconciliazione, quasi panteistica, con la vita e la Natura intese in senso ciclico. Quest’ultima concezione può essere avvalorata dalle reminiscenze del protagonista relative alle proprie vite passate.

Se il sapere della morte è il sapere più vuoto che ci sia, in quanto il soggetto conoscente non può mai esperire ed essere l’oggetto ma al massimo può assistere, ascoltare e comunicarne il prima e il dopo, Loong Boonmee raleuk chat è un’opera che, partendo da certi valori della tradizione e giungendo ad alcune elaborazioni di visionarietà, azzarda un passo innocente verso il riempimento di questo sapere.

domenica 27 febbraio 2011

Insectione_Defiguration

(Articolo pubblicato sul settimanale "Il corriere dell'arte" uscito in edicola il 25 febbraio 2011)

Non avevo mai visto cosi tante persone accalcarsi allo Studio D’Ars di Milano come è accaduto l’8 Febbraio, all’interno di Meltingpot Cantiere Creativo, con Insectione_Defiguration di Matilde De Feo, tappa in linea con la ricerca dell’artista sulla contaminazione tra teatro e tecnologia, poesia e new media art.
La video-performance, nata anche dalla lettura di La défiguration: Artaud,
Beckett, Michaux di Evelyne Grossman, vuole capovolgere la normale, o normopatica, relazione uomo-insetto, solitamente incentrata sulla “paura”: Matilde De Feo, nelle vesti di attrice, si avvicina timorosa e diffidente ad un insetto proiettato su una parete e questo, invece di scappare, si moltiplica, invadendo a pois il corpo della donna, come se il modo di vincere la fobia consistesse nella sovraesposizione all’agente fobico, e non nel creare una distanza da esso.

Dopo un corporeo e danzante dialogo con gli animaletti la donna si accascia al suolo, come tranquillizzata. Insectione_Defiguration è un tentativo di mettere in scena la sfumatura dei confini e la curvatura degli spigoli tra differenti aree artistiche, lasciando interagire corpi materiali (essere umano) ed immateriali (insetti proiettati), così che i primi, attraversando una catena di fotocellule, inneschino una libera sequenza di eventi visivi e sonori.
Per la realizzazione del tutto l’artista si è avvalsa della programmazione grafica e interattiva di Tommaso Megale e del gruppo Workshow (Davide Totaro e Manuel Buscemi).