(Pubblicato sul numero 211 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pag. 68-71)
Il regista turco Nuri Bilge Ceylan ha fatto in modo che
le relazioni interne a Bir zamanlar Anadolu'da (in italiano C'era una
volta in Anatolia) e gli effetti generati dall'opera sul pubblico si
sviluppassero con forti analogie. Sommariamente,
il film potrebbe riassumersi nel viaggio di un commissario, un procuratore e un
medico – e di un nutrito gruppo di lacchè – alla ricerca di un uomo
assassinato e seppellito: la squadra vaga per le steppe dell'Anatolia seguendo
le indicazioni del presunto omicida, un tipo silenzioso e confuso, che fatica a
ricordare dove nascose la vittima; a notte fonda il gruppo decide di sostare
presso il villaggio più vicino, ospite del sindaco; qui l'assassino torna a
ricordare, o sceglie di ricordare, il luogo della sepoltura e, all'alba del
giorno seguente, il corpo viene dissotterrato e portato in città, per essere
riconosciuto dalla moglie e per eseguire l'autopsia.
La
luce lunare e i fari delle automobili svelano la prima parte della pellicola,
mostrando in campo lungo il peregrinare delle tre automobili, alle calcagna
della memoria perduta della guida; Nuri Bilge Ceylan fornisce i riferimenti
lentamente rilevati dai personaggi, ponendo così gli spettatori allo stesso
livello esperienziale: sensazioni di spaesamento e conseguenti stati d'animo.
Ogni qualvolta, però, si attende l'evoluzione della vicenda, la camera fa un
passo in là, si allontana, spostando la scena, per esempio, sulle
conversazioni nell'autovettura e rifrangendo la linea narrativa in altri nuclei
che, a loro volta, verranno scientemente persi di vista, per poi essere
ripresi. Questo procedere, apparentemente dispersivo, tesse una ragnatela di
incontri e centri d'interesse, antitetica rispetto alla convenzionale
consequenzialità tematica delle comuni dimensioni diegetiche: ogni fatto si
relativizza in un girocollo di questioni affini, irrisolti passati dei
personaggi o concrete situazioni sul luogo. I concatenamenti di interruzioni e
deviazioni sbrindellano la forma-azione e ricreano, sia per i protagonisti che
per gli spettatori, un ordito accostabile a quello della vita reale,
nella quale è proprio l'incespicare in improvvisi frammenti a disegnare la mappa
dei prossimi movimenti. Questo meccanismo è riprodotto anche nel secondo atto
di Bir zamanlar Anadolu'da che, ambientato nell'abitazione del sindaco e
illuminato solamente da qualche candela, rimanda a certi dipinti di Georges de
La Tour e Jan Vermeer. Per tutta la durata il film è caratterizzato da alcune
costanti: il viaggio che coordina ogni discorso, un personaggio
(commissario, procuratore, medico) che a turno prevale in ogni atto, la
studiata differenziazione delle fonti di luce (luna e fari, candele, sole) che
contribuisce alla tripartizione dell'opera – e lo scoprirsi degli individui che
sovrasta le scoperte lungo il tragitto (la precaria salute del rampollo del
commissario, la tragedia della consorte del procuratore, il cambiamento di
prospettiva del medico che, avvicinandosi diversamente agli uomini, scortica la
propria visione asettica e scientifica); ma a dominare è il continuo frangersi
del presente in contraddizioni e affinità, come nella scena finale, nella quale
l'esame autoptico è simultaneo allo sguardo del dottore, i cui occhi, dalla
finestra dell'ospedale, colgono il figlio della vittima vicino a dei coetanei
che giocano con una palla.
Detachment
Pittore,
compositore, cantante, regista di video musicali, il londinese Tony Kaye, che
nel 1998 aveva esordito nel mondo del cinema con il lungometraggio American
History X, è tornato sui grandi schermi con Detachment (occorre
ricordare anche Lake of Fire, documentario del 2006 mai distribuito
nelle sale italiane).
Profilo
sottile, naso importante e affilato, le sopracciglia che indicano i padiglioni
auricolari, l'attore Adrian Brody incarna Henry Barthes, supplente di
letteratura catapultato in un liceo della periferia americana; in
quest'edificio ha a che fare con un campionario di adolescenti problematici,
ragazzi privi di interesse o di speranze, studenti coi quali è impossibile
tenere una lezione frontale, che necessitano di essere scavati nella loro
realtà socio-familiare e che rispondono soltanto davanti a un insegnante in
grado di scollarsi dalla cattedra e affrontare personalmente le loro storie. Detachment
può essere visto come una riflessione per immagini sull'inadeguatezza della
scuola pubblica negli Stati Uniti, la cui efficienza in determinati contesti
pare dipendere esclusivamente dal sovrappiù di qualità umane del corpo docente.
Tony Kaye, però, ha messo in scena qualcosa di diverso da un semplice e ben
riuscito manifesto di denuncia: al di là delle animazioni stilizzate che
preludono ai momenti di maggior drammaticità e non fermandosi alle indagini
psicologiche dei primi piani (pur apprezzandone la maestrìa), la pellicola apre
a questioni quali l'identità e il soggetto. L'insegnante Henry Barthes emerge
assieme alle eterogenee narrazioni rappresentate: la giovane prostituta, coetanea
dei suoi alunni, accolta e medicata nella propria casa; le confessioni di una
studentessa umiliata dai compagni e denigrata da un padre incapace di
apprezzarne l'estro fotografico; la
classe scolastica nella totalità e nelle difficili individualità; il nonno,
logorato dalla demenza senile, che lo costringe a corse notturne sul luogo del
ricovero; i continui flash-back che raccontano la sua infanzia, l'episodio del
suicidio della madre. Henry Barthes si staglia su tutte queste emergenze ma è
anche il punto di vista, lo sguardo che le raccoglie; la sua peculiarità
risiede nel distacco – detachment, appunto – attuato ogni volta in cui,
a causa di queste relazioni, sente il rischio di bloccarsi in un'identità,
"non mi sono mai sentito così profondamente distaccato da me stesso e al
contempo così presente nel mondo", citazione di Albert Camus che
testimonia lo status del docente come presenza di un'intermittente assenza a
sé. Il distacco più faticoso è quello dal suo passato di bambino, dalla
prematura scomparsa della figura materna: immagini dolorose di una ferita
difficile da rimarginare, conoscenza del dolore che diventa precondizione di
un'inconscia strategia relazionale. Anche la professione di supplente, emblema
della precarietà, conferma la condizione dell'uomo: Henry Barthes è una casella
vuota, una cattedra vagante, la cui formazione di senso viene sempre
determinata dal rapporto, in divenire, con le altre pedine della
costellazione; non a caso, lo scatto elaborato dall'alunna-fotografa lo ritrae
senza volto, coi tratti del viso cancellati in una nuvola bianca,
companatico della sua affermazione "io non sono qui, anche se mi vedi in
realtà non ci sono".
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