(Pubblicato sul numero 212 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pp. 40-43)
Era il 2008 quando Il divo di Paolo Sorrentino e Gomorra di Matteo Garrone conquistavano critica
e spettatori, con tanto di premi, riconoscimenti e gratifica ai botteghini. Questi
successi, che vanno rapportati all’odierna dimensione del cinema italiano e
alla limitata visibilità di certi generi
nelle nostre sale, hanno portato alla coproduzione italo-franco-irlandese diretta
da Sorrentino, il buon This must be the
place, e adesso, a distanza di un anno, all’uscita di un’altra coproduzione,
questa volta solo italo-francese, Reality
di Garrone.
Dopo la
trasposizione cinematografica del romanzo
di Roberto Saviano, Matteo Garrone voleva cambiare registro; con Reality, girando una sorta di commedia, il
regista intreccia la rappresentazione del paesaggio culturale napoletano - profilato
in alcuni tipi antropologici, angoli cittadini, tempi quotidiani e accenni di rituali
- con quella della sfera psicologica di Luciano, protagonista del film,
catturato in una giostra che si muove
nei territori del paese in cui vive e tra gli spazi dei suoi desideri e delle sue percezioni: l’opera si sviluppa su piani in
reciproca contaminazione, il livello che lo stesso Garrone definisce geografico e quello delle manifestazioni
del mondo interiore di Luciano.
L’elemento
partenopeo, coi suoi contrasti ed eccessi, ben si presta a un ritratto filmico
dai lineamenti nitidi, le cui espressioni, se viste dalla giusta distanza, potrebbero
trascenderne i confini, estendendosi a Roma, Milano, all’Italia intera o,
meglio ancora, al presente dell’Occidente; difatti il regista, ai residui delle
identità locali, miseramente concentrate
nelle fisionomie degli attori e nelle parlate campane, applica delle maglie di
interessi standardizzati, le quali conducono i personaggi in scena - relativamente
diversi, in quanto la vista di Garrone si posa quasi esclusivamente su figure
culturalmente vulnerabili - a frequentare non-luoghi
edificati pressappoco su tutto il pianeta: ville che organizzano matrimoni,
centri commerciali, parchi acquatici, programmi televisivi quali i reality
show. I membri della famiglia estesa
di Luciano si distribuiscono attorno alle stesse attività e, indifferentemente
dalle età, si perdono in discorsi incentrati su argomenti simili. Significativa
è la scena, preparata come una danza generazionale, in cui, sbirciando da una
stanza all’altra dell’appartamento, vengono inquadrate nonna, madre e figlia mentre
lasciano scivolare gli esagerati abiti della festa, con identica cura,
scandendo ritmicamente i gesti, come fosse la spoliazione di un’unica donna, infondendo
la comune rassegnazione a dover rindossare il loro aspetto quotidiano. La
tematica dell’omologazione culturale e transgenerazionale fa da sfondo
all’intera vicenda e, pur non diventandone mai il perno, si concretizza
elegantemente in alcune delle migliori trovate registiche dell’opera;
dall’altro, un secondo argomento accompagna costantemente Reality, quasi in modo didascalico, la dualità essere-apparire, la quale però, rispetto alle delicate
descrizioni delle pratiche omologanti, viene liquidata banalmente in una
prospettiva morale, senza essere problematizzata arriva come la compilazione di
una tabella con le voci bene/male o giusto/sbagliato. L’ambiente e la
mascherata di volti caratteristici, tra cui spiccano quello del barista
interpretato da Ciro Petrone – uno dei due ragazzi di Gomorra – e la cortina
antropomorfa di Aniello Arena – attore formatosi nella Casa di Reclusione
di Volterra e che qui recita la parte di Luciano – sono raccolti da uno sguardo
non documentaristico; l’atmosfera è quella del teatro napoletano, tra i
luccichii del Paese dei Balocchi e
gli acuti di una grande farsa. Luciano - il secondo
livello a cui si accennava in precedenza - lavora in piazza come pescivendolo
e, per arrotondare, architetta piccole truffe con la complicità della moglie e
di un amico fidato; le sue giornate sono ravvivate dalla spettacolarità e dagli
imprevisti che intervallano il tornaconto della famiglia e la vita del
quartiere. Spronato dai parenti e dai conoscenti, un pomeriggio si sottopone a
un provino per partecipare alla nuova edizione del Grande Fratello: Luciano passa la prima selezione e,
sull’entusiasmo dei concittadini palpitanti all’idea di vedere un proprio capobranco catapultato nel mondo della
televisione, si reca alla successiva; da questo momento inizia una lunga
attesa, l’interminabile illusione di poter, prima o poi, oltrepassare la soglia
dello schermo. Le inquadrature si adeguano allo stato d’animo del protagonista
mettendo in dialogo il primo piano del suo volto con una girandola di figure
fuori fuoco, le scene si modulano in lunghi movimenti di camera, il punto di
vista coincide sempre più con quello di svariati occhi elettronici, da quello
del circuito chiuso di un negozio a quello di un satellite, dalla macchina
fotografica di un turista alla vista tentacolare del reality show. Le scelte registiche
rendono in modo raffinato la mutata percezione di Luciano, alienato da tutto e
da tutti, imprigionato nel sogno allucinogeno di poter sfondare, presto o
tardi, la porta del Grande Fratello –
e quella che era la sua quotidianità viene progressivamente smantellata dall’ossessione
di essere interrottamente osservato, testato in vista dell’ingresso nel
programma. Se la messa in scena è eccellente, la tematizzazione dei contenuti risulta meno interessante,
nello specifico l’analisi
dell’esercizio di potere da parte di un programma televisivo ai danni di una
persona: il sogno di Luciano assume i connotati di un’ossessione, la quale
finisce per caricaturizzarlo, per farne un folle, un uomo diverso sbalzato dalla comunità; Garrone medicalizza
la dipendenza di Luciano, come se gli effetti di certi poteri fossero
identificabili clinicamente. È davvero così? Esasperando le conseguenze di questi poteri, il regista manca la
peculiarità della loro azione, la quale, forse, s’insinua più dolcemente, senza
strilli e gesti estremi, allargandosi a macchia e producendo semplicemente
normalità, non scemi del villaggio.
Nessun commento:
Posta un commento