[Pubblicato su D’ARS Magazine / year 53/nr 214/summer 2013, pp. 52-55.]
Distribuito nelle sale pochi giorni prima delle ultime elezioni, Viva la libertà di Roberto Andò (regista palermitano formatosi al fianco di Francesco Rosi, Federico Fellini, Michael Cimino e Francis Ford Coppola) è una sorta di instant movie. Tratto da Il trono vuoto – romanzo dello stesso Andò edito da Bompiani nel 2012 – il lungometraggio è quasi interamente intarsiato dalla presenza di Toni Servillo, il quale si presta a essere ambiente, scenografia di un film nel film in cui i muscoli facciali e i gesti misurati dell’attore di Afragola, a tratti, assurgono al ruolo di veri protagonisti. Un Servillo catalizzatore e bifronte, esaltato dalla regia lineare, pulita, che lo incalza mettendosi al servizio del doppio-protagonista e delle figure che gli orbitano attorno.
Distribuito nelle sale pochi giorni prima delle ultime elezioni, Viva la libertà di Roberto Andò (regista palermitano formatosi al fianco di Francesco Rosi, Federico Fellini, Michael Cimino e Francis Ford Coppola) è una sorta di instant movie. Tratto da Il trono vuoto – romanzo dello stesso Andò edito da Bompiani nel 2012 – il lungometraggio è quasi interamente intarsiato dalla presenza di Toni Servillo, il quale si presta a essere ambiente, scenografia di un film nel film in cui i muscoli facciali e i gesti misurati dell’attore di Afragola, a tratti, assurgono al ruolo di veri protagonisti. Un Servillo catalizzatore e bifronte, esaltato dalla regia lineare, pulita, che lo incalza mettendosi al servizio del doppio-protagonista e delle figure che gli orbitano attorno.
Servillo è Enrico
Olivieri, segretario del principale partito d’opposizione – il PD non viene
nominato ma i riferimenti sono piuttosto espliciti. Piena campagna elettorale e
sondaggi sfavorevoli ma l’ingessato leader,
svuotato come il Titta Di Girolamo de Le
conseguenze dell’amore o l’Andreotti de Il
divo, si trascina secondo la grammatica e le abitudini di una logorante
carriera politica, non focalizzando le prossime mosse strategiche. Personificazione
dell’afasia di un certo ceto dirigenziale, sicuramente; ma anche crisi
d’identità del personaggio, oltre che del partito. Questo smarrimento porta all’improvvisa
fuga dell’Olivieri: senza preavviso e lasciando impreparato il partito, il
segretario abbandona tutto e piomba segretamente a Parigi da una sua vecchia fiamma, Danielle (Valeria Bruni
Tedeschi), la quale lavora sul set di una produzione cinematografica. Mentre a
Roma la moglie (Michela Cescon) e il fedele collaboratore, Andrea Bottini
(Valerio Mastandrea), si scervellano per non far giungere la notizia a media, militanti e avversari politici, Olivieri
si rigenera nella casa di Danielle, cangiando in pensionato, adolescente
innamorato e turista.
Servillo è anche il
gemello dell’irrintracciabile segretario, Giovanni Ernani, studioso di
filosofia appena rilasciato da una clinica psichiatrica in cui era ricoverato a
causa di un supposto disturbo bipolare. L’Ernani entra in scena chiamato da
Bottini per sostituire il fratello scomparso e, data la quasi-uguaglianza
fisionomica, per salvare almeno fisicamente la credibilità del partito: è il
ritorno del rimosso dalla società, dell’internato che ha imparato a costruirsi
speranze e che, quindi, sa portarle ovunque. L’uomo entra nei panni del gemello
sbrindellando il busto ortopedico dei costumi mediatici, infischiandosene dei
modi preconfezionati e, da pezzo unico qual è, alza tutti gli indici di
gradimento: duella con la stampa servendosi della propria lucida follia, dandole le parole che cerca ma senza camuffare la verità; incontra gli elettori recitando Pascal,
Shakespeare, Brecht, intercettandone stati d’animo e situazioni; chiude la
riunione di partito con un haiku
giapponese; risolve i rapporti
internazionali improvvisando un valzer con la cancelliera tedesca e, ricevuto
dal Presidente della Repubblica, lo sfida giocando a nascondino nella Sala del Mappamondo.
Roberto Andò,
attraverso il due ruoli di Servillo, ritrae un universo politico affetto da psicosi maniaco-depressiva: da un lato
l’arresto ideativo di Olivieri, la sua incapacità di ordinare le impressioni e
di decidere; dall’altro l’alterazione
maniacale dell’Ernani, la sua coerente e positiva fuga di idee-parole. L’intreccio
di doppi, però, non si limita ai due gemelli ma riguarda anche politica e
cinema, realtà e finzione, Roma e Parigi, registro ironico ed esistenzialista.
Doppi articolati in posizione chiastica:
lo spento Olivieri è a Parigi, su un set cinematografico, nel mondo della finzione; il matto Ernani è a Roma, nelle istituzioni politiche, a contatto con
una realtà depressa. La politica e il
cinema non sono così lontani, il genio e il bluff coesistono, sentenzia un
personaggio. Politica e cinema, quindi, politica e spettacolo; non a caso viene
mostrata un’intervista d’archivio di Fellini il quale, lamentandosi
dell’avanzare delle interruzioni pubblicitarie, esprime contenuti di protesta
affini a quelli dei suoi ultimi film: l’irresponsabilità culturale e sociale di
chi fa un uso demenziale della TV ma anche il patetismo di coloro che
rimpiangono un mondo che non c’è più (Ginger
e Fred), la visione dell’industria cinematografica come di una fabbrica di
cialtronate (Intervista), la vana
richiesta di silenzio per poter ascoltare ciò che altrimenti sfuggirebbe (La voce della luna).
All’interno di
questo quadro, Andò traccia due linee: la prima è il recupero dell’identità del
partito attraverso la tradizione, un linguaggio ancorato ad alcune menti del
passato, i rapporti con l’eminenza grigia (Gianrico Tedeschi); la seconda,
invece, consiste nei discorsi e nella fisicità espressiva dell’Ernani,
nell’affinamento dell’arte retorica, nella persuasione dell’uditorio, nella
comunicazione senza snaturamento delle proprie radici. Ritorno al passato e
padronanza della parola pubblica, nulla di rivoluzionario si direbbe; anzi, il
secondo punto ricorda una ricetta
simile alla maniera del Prevalente. Eppure
qualcosa di insolito potrebbe affiorare proprio da un comizio di Giovanni
Ernani, il discorso fatto in piazza San Giovanni, dove recita A chi esita di Bertolt Brecht, più
precisamente l’ultima frase, non
aspettarti nessuna risposta oltre la tua. Non confidare nelle risposte dei
delegati, non solo a causa dell’insipienza mostrata nell’ultimo ventennio ma proprio
perché, come sostenevano Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels, la
democrazia funziona e sopravvive solo nelle forme di un’oligarchia de facto di politici e burocrati: la
partecipazione popolare c’è solo in occasione delle elezioni – è la teoria elitista di democrazia. Per tali
politologi, sociologi ed economisti – apprezzati da Benito Mussolini – l’apatia
politica del popolo è segno di buona salute, in quanto permette alla cerchia di
esperti di lavorare in tranquillità. Al
contrario, qui si ritiene che l’unica democrazia sia la democrazia diretta,
dell’Atene del V e IV sec. a.C. – a maggior ragione dal momento che l’élite
dirigente non è in grado di svolgere il proprio incarico. In società più vaste
e complesse di quella ateniese, però, la democrazia diretta spesso è sembrata
inattuabile. Oggi, però, nuovi elementi
empirici – chiamiamoli così, per non fare l’ennesima apologia del web – consentono di inseguire l’utopia, di
instaurare un dialogo tra le risposte offerte dai singoli cittadini; inoltre,
mentre ad Atene gli schiavi non potevano prendere parte all’Assemblea, nel
terzo millennio ogni individuo avrebbe la possibilità (non l’obbligo),
partecipando con consapevolezza alla cosa
pubblica, di non essere schiavo.
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