[Pubblicato su D’ARS year 53/nr 215/autumn 2013, pp. 34-37.]
Ambientato in una Bangkok
allucinata, tra palestre e locali notturni, Only
God forgives di Nicolas Winding Refn unisce aspetti delle due precedenti
opere del regista danese: le atmosfere ansiogene e i luoghi contemporanei di Drive (2011), qui cromati di diverse
tonalità di rosso, si distillano secondo il ritmo e i tempi meditativi del
dionisiaco Valhalla Rising (2009).
Considerando che in
Refn i formalismi sono solo apparenti in quanto divengono pura sostanza dello
sviluppo contenutistico e che le scelte stilistico-registiche sono sempre incisive
a livello discorsivo, l’argomento della vendetta è il pretesto narrativo di un
film che, non limitandosi a essere un semplice revenge movie, si apre su questioni
altre.
Nella capitale
thailandese i fratelli Julian (Ryan Gosling) e Billy (Tom Burke) gestiscono una
lussuosa palestra di pugilato come copertura dei loro traffici illeciti. Una
sera Billy uccide una delle prostitute che abitualmente frequenta, una
minorenne: le autorità locali si rivolgono a Chang (Vithaya Pansringarm),
poliziotto in pensione, il quale vendica immediatamente la ragazza rifacendosi sull’assassino.
In seguito all’episodio arriva in città, direttamente dagli Stati Uniti,
Crystal (Kristin Scott Thomas), madre dei due fratelli nonché boss del clan, che
domanda all’unico figlio rimasto – Julian – di vendicare il primogenito.
Mentre Confessions di Tetsuya Nakashima (produzione
giapponese uscita nelle sale italiane poco prima di Only God forgives) potrebbe essere una sorta di trasposizione di
alcune teorizzazioni di René Girard – difatti viene mostrata l’escalation della vendetta, dovuta all’uso
sbagliato del pharmakos/capro espiatorio,
una violenza senza misura che genera nuovi conflitti interpersonali e scioglie
qualsiasi vincolo sociale – l’ultimo film di Refn si racconta in modo a-didascalico, a tratti (e paradossalmente)
extradiegetico e divinizzando la non
naturalistica finzione cinematografica.
L’opera si
caratterizza per il ruolo della luce e l’uso della profondità di campo: la
seconda permette di sfondare il piano dello schermo, andando continuamente a
cercare qualcosa oltre i limiti spaziali e modificando di volta in volta i
rapporti tra figure e campo. La luce filtrata dalle finestre, dall’altro, crea pattern luminosi tessuti secondo geometrie
orientali, arabeschi immateriali che sovraimprimono, accumulano e prolungano la
materia inanimata, facendola al tempo stesso vibrare e respirare. Il potere di raggiungere
l’invisibile – profondità di campo – e di soffiare vita nella materia – uso
delle luci – porta a inglobare il ruolo dei mezzi cinematografici nella
diegesi, costringendo a una lettura della trama
che consideri anche il ruolo demiurgico della finzione (o, se si preferisce, la
natura artificiale di Dio). All’identità semidivina del mezzo cinematografico
si contrappone la legge secolare personificata dal poliziotto in pensione:
silenzioso, avanza contro chi viola la giustizia e, con la sua katana, punisce mutilando braccia e
mani, danneggiando orecchie e occhi – non passa inosservata la citazione di Un chien andalou di Luis Buñuel. Negando ripetutamente
l’organicità dei corpi senzienti, Chang esercita però un potere povero nelle
sue risorse, un potere anti-energia e capace solo di dire no.
Infatti, che sia la brutale deturpazione di un corpo o che sia una forma di violenza
sublimata, l’azione di forza di un uomo nei confronti di un altro uomo è un
gesto coercitivo che si protrae poco oltre il dolore di un istante e che, al di
là della propria singolarità, lascia poche tracce.
In
opposizione a Chang il
regista
pone la figura di Crystal, madre edipica e forse incestuosa, la quale non rappresenta
solamente una donna ma inscena la Famiglia, la configurazione di un destino, il
substrato storico-empirico che in-forma e in-canala un’esistenza. Crystal, capo
dell’organizzazione criminale, è stata per i propri figli il luogo di
iniziazione a un certo tipo di vita – delinquenziale – e, adesso, continua a
produrre azioni in Julian, persuadendolo a uccidere il carnefice del fratello: la
Madre, insomma, raffigura quel concatenamento di fattori che avvolgono e
indirizzano la vita del singolo individuo prima ancora che questi sia stato
concepito. Rispetto allo sterile e limitato potere di Chang, quello di Crystal
è produttivo e formativo proprio come
la finzione/demiurgo, di cui si è detto in precedenza.
Julian,
co-protagonista e antieroe di Only God
forgives, è oppresso dall’invisibile struttura – indagata con la profondità
di campo e che ha le sembianze di Crystal – in cui è cresciuto e che continua a
portarsi addosso, nonostante si sia trasferito in Tailandia. L’uomo, inoltre, è
afflitto dal prospettarsi del duello fisico con l’invincibile Chang, uno
scontro ormai imminente e inevitabile.
Tra
i due poteri, Julian pare individuare il meno doloroso in quello umano,
corporale, la forza esercitata da Chang; decide infatti di affrontare un pari natura sapendo di uscirne sconfitto
e, quasi docilmente, si lascia amputare le mani dall’ex poliziotto, come se questa
sanguinaria espiazione fosse comunque meno dolorosa del già-da-sempre-indossato abito esistenziale personificato dalla
Madre. La scena-chiave del film, non a caso, vede Julian infilare un braccio
nella ferita di Crystal, la quale era stata trafitta nel ventre dalla lama di
Chang, simbolizzando così la morte della sua coercitiva matrice di vita e, soprattutto,
tratteggiando la propria rinascita di uomo, ricominciando ancora dalla pancia
della mamma.