(Pubblicato sul numero 213 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pp. 48-51)
Un uomo scarno, con faccia stropicciata come la
pagina di un quotidiano del giorno prima e occhiaie d’inchiostro sbavato, sta
per lasciarsi cadere dal bordo del marciapiede proprio al passare di una
vettura, quando viene afferrato per la collottola da un uomo piccoletto, col
muso tra il carlino e lo strigiforme, il quale gli consiglia una soluzione più
saggia, perché il suicidio è proibito in luoghi pubblici.
Andando con ordine, in Italia, e solo in Italia, Le Magasin des suicides di Patrice
Leconte era stato inizialmente bollato – dalla Commissione di Revisione
Cinematografica – con un divieto per i minori di diciotto anni. Tale decisione portò
la casa di distribuzione a presentare ricorso e ritirare il film dalle sale;
alla fine la polemica ha sì ritardato di una settimana l’uscita del film ma, in
compenso, ha azzerato le restrizioni di pubblico.
Abbondantemente superati i sessant’anni, Patrice
Leconte, che da Tandem (1987) in poi
aveva svolto anche il ruolo di operatore in tutti i suoi lungometraggi (egli,
infatti, sostiene che il controllo video falsi completamente il punto di vista
del regista), si è avventurato nella direzione del suo primo film d’animazione,
un po’ perché riteneva che fosse l’unica soluzione per adattare l’omonimo
romanzo di Jean Teulé, un po’ per ritornare al proprio passato di disegnatore e
amante di fumetti. Un diverso processo creativo, che lo ha portato a condividere le operazioni di regia con
gli art director e, per velocizzare i lavori, ad affidarsi a tecnici di computer-generated imagery.
Il cineasta parigino ha costruito una città lugubre
e sinistra, dove edifici minacciosamente alti parano ininterrottamente la luce
del sole. Un luogo avvolto da un mantello di depressione, abitato da uomini e
donne in attesa solamente dell’occasione per farla finita. Già, perché in
questo 13° arrondissement a tinte
gotiche il suicidio, desiderato e tollerato, è regolato: se lo si attua in
strada, nel giro di pochi secondi, le sirene della polizia raggiungono il corpo
inerte e lo infiocchettano con una sanzione pecuniaria. Una specie di Gotham
City cartonata, popolata da
un’umanità giunta all’ultimo stadio di decadenza, le cui ultime pulsioni di
vita appartengono a grigie – cromaticamente, s’intende – alterità in posizioni
marginali, se non esterne: i ratti che brulicano sottoterra – Leconte parla di
loro come di un coro greco che commenta
l’azione – e i guardinghi piccioni che cercano di restare in cielo più che
possono così da non scottarsi con la cappa di sotto. Le sequenze d’indagine del
paesaggio, in effetti, hanno la prospettiva mobile e impazzita di un occhio in
volo.
In questa tetro alveare
resiste e prospera un negozio colorato, una bomboniera luccicante
apparentemente carnevalesca – ecco la soluzione più saggia anticipata a inizio articolo. È La bottega dei suicidi (titolo italiano del film) gestita dalla
famiglia Tuvache: il signor Mishima, la
moglie Lucrèce e i due figli adolescenti, la rotondetta Marilyn e l’insetto stecco umanizzato Vincent - i nomi rimandano allo scrittore giapponese Yukio
Mishima, morto nel 1970 facendo harakiri in diretta tv, e ad altri personaggi
dal destino simile, la leggendaria Lucrezia di Roma, Marilyn Monroe e Van Gogh.
I Tuvache accontentano i loro clienti offrendo un vasto assortimento di rimedi per
trapassare: dalle boccette di profumi
velenosi per le signore eleganti alla virile katana per il culturista di
passaggio, dalle scatole di cioccolatini con la scritta death for two per gli amanti indivisibili al sobrio cappio per individui
solitari, fino al kit gratuito costituito da sacchetto di plastica + pezzo di
nastro adesivo per chi deve accontentarsi di una morte povera. Offerte personalizzate, anche in base al portafoglio.
Vicino all’universo visivo del connazionale Sylvain
Chomet, sfruttando le libertà espressive offerte dall’animazione bidimensionale
– anche in forma di teatrini musicali della sfera onirica o psicologica dei
personaggi – e venando di humour nero qualsiasi dinamica, Patrice Leconte caricaturizza
un mondo privo di orizzonti, fatto da persone senza speranze e desideri. Una
civiltà stanca, ferma e impotente, i cui ultimi beni su cui capitalizzare sono le morti dei suoi membri. Da un lato
arricchimento economico per l’ultima stirpe di negozianti, dall’altro la gioia di
vivere estrosamente la propria fine; e allora imperversano gli slogan: se la tua vita è un fallimento, fai della
tua morte un successo!
Tutto procede cinicamente, clienti che vanno e che vengono; finché un giorno la signora
Tuvache mette al mondo il suo terzogenito, Alan, un enorme sorriso a fetta
d’anguria montato su un corpicino esile. I tentativi dei genitori per correggerne
lo spicchio di felicità risultano inutili. Il bambino cresce e, maturando, aumenta
la sua innata gioia di vivere, la quale, però, mal si sposa con l’atmosfera familiare
e con l’immagine della bottega. Alan
è un inizio di cambiamento, un nuovo vento che soffia contro la casa in cui è
stato generato. E, col procedere della narrazione, il suo soffiare diviene
sempre più un bombardare. La prima mossa consiste nel regalo di compleanno alla
sorella Marilyn, un foulard rosa, con cui la ragazza, nascosta in cameretta,
improvvisa balletti mediorientali e, facendoselo scorrere addosso, scopre
spontaneamente il piacere del corpo, dell’essere sbirciata, da Alan e dai suoi
amichetti, fino a scoperchiare i propri desideri affettivi, erotici. Day of Revolution / the revolution of the sexy lamb,
scriveva Allen Ginsberg. Viene in mente l’insinuarsi della Venustas narrata dai poeti romani, quella
forza graziosa che trascina dietro di sé, incatenati al loro desiderio, tutti
gli esseri viventi.
Il secondo passo di Alan è un intervento progettato
con la complicità di un carrozziere: armare un automobile di amplificatori e
casse acustiche, parcheggiarla davanti al negozio di famiglia e aspettare di
vederne gli effetti. La macchina è un grande cuore cibernetico, che sprigiona
musica in tutto il quartiere, le vibrazioni crepano le pareti degli edifici,
compresa la bottega di famiglia, diffondendo un ritmo coercitivo, che scuote
fisicamente gli abitanti, percuotendoli fin nei loro animi. Musica come battiti
di vita, ritrovata armonia, rifiuto di qualsivoglia significato sedimentato.
Infine, oltre all’eros e alla musica, il terzo strumento di ribellione è la risata isterica che Alan suscita nel
padre, buttandosi dal cornicione di un grattacielo per poi riapparire
volteggiando nel vuoto, grazie a un materasso molleggiato posto ai piedi del
palazzo. Una risata che travolge, seppellisce; e con Mishima, forse, stanno
ridendo anche Nietzsche, Bakunin, Foucault…
Al di là di queste figure suggestive, con Le Magasin des suicides, Leconte sembra
denunciare lo stato di apnea della zoé,
della nuda vita, che mai come oggi sta soffocando nei propri abiti
culturali.