(Pubblicato sul numero 210 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pag. 48-51)
Se la proiezione di Là-bas dovesse avere una destinazione prioritaria non si
tratterebbe del pubblico italiano ma delle persone in procinto di emigrare nel Bel Paese, convinte di migliorare la
loro esistenza. Il primo lungometraggio del regista Guido Lombardi, in passato
collaboratore di Abel Ferrara e Paolo Sorrentino, prese forma nel 2006; idee e
trama hanno subìto modifiche in seguito alla strage di Castel Volturno del 18 Settembre
2008, nella quale un commando di camorristi uccise sei ghanesi – le indagini
della magistratura hanno concluso che nessuna delle vittime era dedita a
traffici criminali.
L’opera, in francese con sottotitoli in
italiano, è recitata prevalentemente da attori non professionisti - provenienti
da diversi Stati del Continente Nero – il cui vissuto contempla esperienze in parte affini a quelle
rappresentate.
Con Là-bas
Guido Lombardi ha descritto il fenomeno dell’integrazione dei clandestini nel casertano come fosse un lungo
rito, la cui paradossale particolarità consiste nell’incapacità di cambiare la
posizione sociale dell’iniziato, un percorso codificato le cui alternative,
bene che vada, riportano al punto di partenza.
L’iniziato si chiama Yussouf, è un
giovane africano giunto in Italia per guadagnare il denaro necessario
all’acquisto di un macchinario che realizzerebbe le sculture da lui
disegnate. La sua prima tappa è
l’approdo nella casa delle candele,
una villa occupata da una comunità di immigrati di colore, dove si sopravvive
vendendo fazzoletti ai semafori o suonando per strada. In questo luogo Yussouf
trova solidarietà, calore e un’inaridita simulazione del suo habitat culturale;
ma si accorge che, restando qui, bloccherebbe il progetto in cui crede, perché la casa delle candele altro non è che un
simulacro ghettizzato della sua terra d’origine.
Il ragazzo entra quindi in contatto con
lo zio Moses, da anni trasferitosi a Castel Volturno, questi gli trova un lavoro in nero presso un autolavaggio, dove verrà sfruttato e sottopagato:
la scena nella quale Yussouf lava un’automobile, spruzzandola con la canna
dell’acqua, è di un’intensità tale da arrivare come un gesto di pulitura dal colore-etichetta della
pelle che, il ragazzo, sente legato alle sue sventure.
La terza fase verte sul coinvolgimento
del viandante nello spaccio di
cocaina dello zio: a contatto con tutte le sfaccettature del crimine, Yussouf
inizia a ottenere i soldi indispensabili alle sue ambizioni d’artista; però
soffre fortemente il rapporto di servitù coi bianchi della zona e, penetrando sempre più nelle dinamiche del
business, intuisce che non sarà facile uscirne. Finché, una notte, i soci
camorristi compiono una carneficina di africani, Yussouf riesce a fuggire nel
bosco, dove si spoglia dallo smoking bianco per mimetizzarsi agli occhi degli
inseguitori. Scampato il pericolo torna a bussare alla casa delle candele, la già attraversata replica dell’Africa
abbandonata: è totalmente nudo, viene riaccolto e avvolto con la bandiera del
Senegal. L’odissea non ha trasformato Yussouf in un cittadino e le sue sculture
sono ancora invisibili, proprio come lui.
Paolo e Vittorio Taviani restarono
folgorati, da spettatori, davanti alle esperienze teatrali portate avanti nel
carcere di Rebibbia, a Roma, con i detenuti della sezione di Alta Sicurezza –
reclusi per mafia, camorra, ‘ndrangheta, tra cui alcuni ergastolani. Cesare deve morire nasce coinvolgendo
questi uomini e, con loro, si sposta nelle celle, nei cunicoli e nei bracci
della prigione. I due cineasti proposero al regista Fabio Cavalli, dal 2002
direttore di queste attività, di realizzare il Giulio Cesare di Shakespeare. Il testo, che interroga tematiche
quali la libertà e il rapporto tra potere politico e individuo, abbraccia e
problematizza la condizione di persone costrette a scontare gli esiti di un
conflitto con l’autorità: la sovrapposizione tra la recitazione e il vissuto
degli attori sprigiona una forza di verità inottenibile con interpreti
professionisti e in alcune scene fa emergere, prima per i protagonisti e poi
sulla pellicola, irrisolte questioni personali. Per quasi tutta la durata del
film, infatti, la narrazione si concentra sui preparativi per l’esibizione
finale, andando a rendere indistinguibili i momenti di prove dalla meccanica
routine del penitenziario. I fratelli Taviani hanno ammantato la loro opera in
un bianco e nero moderno, così da non scivolare nel facile naturalismo televisivo, un bianco e nero esaltato
dall’illuminazione, la quale ha inasprito i contrasti e ha conferito un ruolo
importante ai lineamenti spigolosi del luogo. Complice della fotografia,
l’inconsueto campionario delle fisionomie indagate ha trasfigurato il carcere
in un paese fuori dal tempo, un ambiente articolato dai gesti e dalle parole
dialettali, dagli sguardi e da quelle voci che fin dalle prime scene, durante i
provini, avevano declamato le proprie generalità, quasi a ricordare al resto
del mondo che loro erano lì ed erano vivi. La rappresentazione della tragedia
di Shakespeare, oltre ad essere un’occasione
di autoanalisi per gli attori e al di là dell’essersi concretizzata in
forma di evento cinematografico per noi spettatori, diventa uno spettacolo
all’interno della prigione, incuriosendo tutti gli abitanti di quel non-luogo,
compresi gli uomini della sorveglianza; e allora il tempo trascorso a
esercitarsi sul copione assume per l’intero carcere
il senso di un’evasione, virtuale ma terapeutica, una dimensione improntata
sull’alternanza di poetica alienazione e cruda lucidità. L’agognato spettacolo
finale, su un vero palcoscenico e davanti a un pubblico vario, consegna agli
attori la presenza, qui e ora, di possibilità altre – non a caso il bianco e
nero concede spazio ai colori –, possibilità che inducono Cassio ad affermare “da quando ho conosciuto l’arte questa cella è
diventata una prigione”.