(Pubblicato sul numero 209 di D'Ars, periodico di cultura e comunicazione visiva, pag. 40-43)
Con
il suo lungometraggio d’esordio, Capote
(2005), il regista Bennett Miller aveva raggiunto in brevissimo tempo
i ranghi più nobili della poetica cinematografica contemporanea. A
sei anni di distanza presenta finalmente la sua opera seconda,
Moneyball
(in Italia tradotto con il titolo L’arte
di Vincere),
anch’essa imparentata con un libro: se il precedente film trattava
la genesi di In
cold blood di
Truman Capote, capostipite dei romanzi-reportage, il soggetto di
Moneyball
nasce direttamente dall’omonimo testo di Michael Lewis.
Fin
dalle sgranate immagini d’apertura si intuisce che, nonostante il
baseball non sia solamente un espediente narrativo, lo svolgimento e
la messa in scena si allontaneranno dal genere favolistico sullo
sport - forse perché è una storia vera? Infatti, anche nelle
sequenze cariche d’agonismo, non verrà mai abbandonata la vista
degli uffici e dei corridoi del McAfee Coliseum, come un velo di
ordinarietà che inibisce la facile investitura di eroi nel bel mezzo
delle partite; in fondo Moneyball
è soprattutto un’opera sulla forza delle idee e sulla loro
incidenza, in positivo e in negativo. Di idee ha bisogno Billy Beane
(Brad Pitt), general manager della squadra di baseball degli Oakland
Athletics, quando il suo presidente, senza disporre dei soldi per
acquistare giocatori blasonati, gli chiede di costruire una compagine
competitiva. Billy riunisce lo staff di collaboratori, anziani talent
scout dalle magliette slabbrate, i cui consigli per uscire
dall’impasse hanno la profondità di un sapere da
fondo di caffè e
scaturiscono da impressioni maturate con l’esperienza ma incapaci
di ridurre le probabilità di errore nella selezione dei giocatori;
Billy lo sa bene perché, in gioventù, rinunciò avventatamente
all’università per seguire l’abbaglio di un talent scout. Tra
una telefonata e una sala d’attesa il general manager realizza che,
seguendo la stagnante e arcaica maniera di lavorare, non oltrepasserà
mai i limiti imposti dal denaro. Efficacia e funzionamento del
sistema sono compromessi dalle logorate fondamenta economiche. La
svolta avviene grazie all’impacciato Peter Brand (Jonah Hill),
neolaureato in economia, assunto coraggiosamente da Billy Beane come
assistente personale: il general manager viene sedotto dalla teoria
sabermetrica espostagli dal giovane economista. Secondo la
sabermetrica i giocatori vanno selezionati sulla base della loro on
base percentage
(OBP), percentuale che indica il numero delle volte in cui un atleta
riesce a conquistare una base senza l’aiuto di penalità. Analisi
statistiche computerizzate consentono di individuare i giocatori con
alta OBP, spesso scartati dalle altre squadre a causa di preconcetti
o di presunti difetti, definendo così un organico capace di portare
come collettivo, e non puntando sulle abilità individuali di pochi
costosi campioni, i punti necessari per vincere. Guardando il
baseball attraverso la nuova griglia concettuale, Billy Beane e Peter
Brand creano un’isola di giocattoli
difettosi, il cui
prezzo è largamente alla portata degli Oakland Athletics. La nuova
strategia gestionale consiste nello spostamento del punto di vista,
in modo che lo sguardo vada a cadere su aspetti prima invisibili, la
cui messa a fuoco svela insperate prospettive. Non è casuale
l’inquadratura di Peter Brand, predicatore dei princìpi
innovatori, appisolato su un letto a due piazze e con, al posto
dell’abituale
crocifisso, un poster di una scultura ritraente Platone: come
spiegato da Gilles Deleuze, il filosofo ateniese creò
le Idee per
districare situazioni concrete nella Grecia del tempo, erano
strumenti concettuali atti a selezionare i pretendenti ai diversi
ruoli sociali. Senza insistere nella ricerca di forzate analogie, si
può affermare che anche Billy Beane e Peter Brand si avvalgono di
nuovi oggetti
ideali
per uscire dalle tangibili difficoltà societarie. Bennett Miller
indaga le avversità incontrate, le resistenze politiche di una
tradizione radicata, per esempio, fino alle sedie del luogo di
lavoro, esibisce le sfaccettature di una mentalità ostile alla
novità, come se quest’ultima rappresentasse una sinistra scossa
sismica da evitare. La forza di volontà occorrente alla riuscita del
cambiamento è testimoniata dalla ricorrente immagine del profilo
laminato di Billy Beane, chiuso di sera nella propria automobile, a
smaltire la tensione per le prime sconfitte subite dagli Oakland
Athletics, fattualità figlie di una strategia mai sperimentata e
che, in caso di fallimento, metterebbe in discussione la figura
professionale del general manager; eppure il buio non riuscirà a
divorarne la linea luminosa del volto e, dopo gli stenti iniziali, la
squadra inanellerà venti vittorie consecutive.
Il
modo in cui
Moneyball affronta
il baseball allude sostanzialmente alla questione delle classi
dirigenti, al fatto che esse sappiano inventare qualcosa per venire
fuori da vicoli apparentemente ciechi, che abbiano l’audacia di
osare e sperimentare.
Sempre
per restare ancorato all’attualità, Bennett Miller inserisce
parallelamente un discorso relativo all’eccessiva speculazione e ai
disagi portati da una sconsiderata astrazione: giocatori licenziati e
manovrati come fossero masse di numeri, un allenatore (Philip Seymour
Hoffman) impotente ed inutile davanti alla gestione statistica della
squadra, esigenze umane completamente messe da parte; tutto ciò va a
limare facili entusiasmi e previene pericolosi fondamentalismi. Le
inquadrature notturne sulle desolate gradinate dello stadio, dove
Billy Beane rimane abitualmente a meditare, possono rimandare al
teatro greco, la cui vitalità è stata prosciugata, secondo le
parole di Friedrich Nietzsche, dalla razionalità socratica. Un
implicito avvertimento a non istituire un impero di creazioni
concettuali scisso dalla realtà, a non ingabbiare la sfera empirica
in un reticolo di trame e dati, a evitare che l’esistente venga
svuotato delle proprie energie contraddittorie o dei suoi
affascinanti imprevisti, come accaduto con la tragedia greca delle
origini.